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Zero Impunity: intervista ai registi del documentario contro i crimini sessuali

Abbiamo intervistato i registi di Zero Impunity, il documentario che indaga sui crimini sessuali perpetrati in zone di guerra e che spesso rimangono avvolti non solo nell'indifferenza generale, ma anche in un'impunità assolutamente inaccettabile. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Zero Impunity è un documentario che, miscelando il linguaggio classico del genere con quello dell'animazione, mira a raccontare l'orrore dei crimini sessuali perpetrati in tempi di guerra e usati spesso come vera e propria arma strategica, una ferita sanguinolenta inferta per meri questioni politiche. E la cosa più aberrante di questi crimini, al di là della loro stessa natura, è il fatto che vengano inflitti a donne, uomini e bambini in una sorta di indifferenza globale, che molto spesso porta all'impunità.

Paesi e istituzioni che chiudono gli occhi davanti a ciò che invece dovrebbe essere gridato ai quattro venti; realtà che non solo permettono che questi crimini continuino ad essere effettuati, ma che in qualche modo finiscono con il rendere le vittime null'altro che cifre, informazioni con le quali diventa più difficili riconoscersi. E, in questo modo, proprio alle vittime viene tolta la loro capacità di reagire, di denunciare, di avere fiducia nella possibilità che possa esistere un mondo in cui le loro parole abbiano un riscontro. In cui la loro voce sia riconosciuta degna di essere ascoltata.

Ed è proprio di questo che parla Zero Impunity: del bisogno di parlare di quello che accade, di quello che è successo e che è stato dimenticato. Il documentario, allora, diventa una sorta di chiamate alle armi, un grido di bataglia che mira a risvegliare le coscienze della società intesa nella sua collettività umana, nella speranza che una maggiore consapevolezza, una maggiore comprensione della questione possa portare ad un vero e proprio cambiamento, ad azioni che non si limitino ad indignarsi dietro lo schermo di un computer.

Abbiamo avuto la possibilità e insieme l'onore di parlare con i due registi di Zero Impunity, Stéphane Hueber-Blies e Nicolas Blies. Di seguito trovate quello che ci hanno raccontato:

D.: Da dove vi è venuta l'idea di miscelare lo stile classico del documentario con la scelta di trattare alcune delle vostre testimonianze tramite l'animazione?
R.: Il motivo per cui abbiamo scelto di mescolare animazione e immagini reali è stato soprattutto perché desideravamo lavorare con un'estetica che ci permettesse di parlare di violenze sessuali senza provocare o allontanare lo spettatore, senza costringerlo all'apatia. Con l'animazione abbiamo scelto di estetizzare il nostro scopo. Il disegno ha permesso di mettere una sorta di distanza emozionale, portandosi allo stesso tempo a sviluppare un'empatia reale. Lo spettatore, in questo modo, poteva avvicinarsi più facilmente alle testimonianze e ha saputo superare la semplice indignazione.
Utilizzare delle immagini reali ci ha permesso di mettere in scena una performance artistica nella quale abbiamo potuto proiettare lo spazio pubblico, su vasta scala, come per esempio su degli edifici, e grazie a un proiettore video, i visi di quei cittadini che annunciavano il loro sostegno alle vittime, invitandoli a liberare le loro testimonianze. Questo tipo di performance è una dimostrazione di questa società che si trasforma e che testimonia la sua capacità di comprendere parole che sono state liberate dai soliti schemi. Che è poi il primo step per lottare contro l'immunità di questi crimini.

D.: All'inizio di Zero Impunity si vedono i volti di giornalisti e attivisti che vengono proiettati sulle facciate degli edifici, mentre le persone continuano ad andare avanti con le proprie vite come se niente fosse. Mi è sembrata una metafora molto potente sull'indifferenza internazionale riguardo questi crimini aberranti di cui si parla in Zero Impunity. Quindi, come si può combattere contro questa indifferenza globale?
R.: Ha ragione. Abbiamo voluto mostrare proprio l'indifferenza delle società contemporanee riguardo al tema delle violenze sessuale in tempo di guerra. E questo a prescindere dal contesto e dal paese. In francia esiste la stessa indifferenza che abbiamo potuto percepire anche in paesi come la Giordania, o gli Stati Uniti. Ovunque. Ed è una situazione drammatica. Lottare contro questa indifferenza è difficile. Noi cerchiamo di combattere con i mezzi che abbiamo a disposizione, che sono quelli di un cineasta, di un artista, perché alla fine è quello che siamo. In qualità di artisti abbiamo scelto di proporre nel nostro film quello che chiamiamo "ascolto che agisce". Per noi la posta in gioco è una questione collettiva e, per questo, aspira ad avere una risposta altrettanto universale. E la collettività deve poter rispondere a molte domande: come poter domandare che giustizia venga fatta verso coloro che sono respinti dalla loro stessa famiglia? Dalla loro stessa comunità? In un contesto di guerra o in quello successivo a un conflitto, dove è possibile andare a presentare una denuncia? In questo senso per noi l'impunità è strettamente legata alla necessità di avere la libertà di parlare. Di parlarne. In chiave di registi, immaginando Zero Impunity, abbiamo seguito il desiderio di creare uno scalpore mediatico che spingesse a porsi le giuste domande e ad agire attivamente sulle condizioni necessarie a questa "liberalizzazione della parola". Il nostro scopo ultimo è quello di mettere in esame le nostre responsabilità collettive e, in questo modo, anche le soluzioni che, comunità, possiamo offrire. Speriamo di poter far risuonare le parole delle vittime, ma allo stesso tempo di svegliare il pubblico, ricordandogli la consapevolezza della capacità che ha di poter cambiare le cose attraverso il paradigma dell'"ascolto che agisce".

D.: Quale è stata la parte più difficile mentre giravate il documentario?
R.: Come ha giustamente sottolineato con la sua domanda precedente, la parte più difficile è stata quella di gestire l'indifferenza totale. Non solo quella incontrata mentre realizzavamo il film, ma anche quella che incontriamo ancora oggi. Dei giornalisti che si interessano al soggetto in modo tanto onesto come sta facendo lei sono molto rari. Ed è stato terribilmente frustrante, perché all'inizio pensavamo che non ci sarebbe stato dibattito. Ma il dibattito, invece, c'è. E deve esserci perché le violenze sessuali perpetrate durante i tempi di guerra vengono usati, oggi, per qualcosa di più importante di una vita umana. Vengono usate per strategie e per geopolitica. Ed è qui che la politica, secondo noi, ha fallito. Come individui tutti noi abbiamo le nostre responsabilità. Ed è anche vero che siamo costantemente bombardati da tante informazioni che alla fine diventano così indigeste da bloccare il nostro istinto a reagire. Pensiamo di dover abbassare le braccia, di arrenderci. Ma il fatto è che è l'umanità stessa ad essere in gioco. La Storia ci giudicherà, come fa sempre.

D.: Zero Impunity sembra una vera e propria chiamata alla lotta, a una certa forma di attivismo. Pensate che il documentario debba risvegliare le coscienze e incoraggiare dunque gli spettatori all'azione vera e propria?
R.: È esattamente questo. Una chiamata alle armi.
Sia comune individui, sia come società, abbiamo i mezzi per creare le condizioni necessarie alla liberalizzazione delle parole. Facciamo un esempio: quando siamo nelle nostre case e ci capita di essere di cattivo umore finiamo sempre con il creare un clima di disagio e poco piacevole, nel quale i membri della famiglia spesso si astengono dal parlare. Cosa succederebbe se, al contrario, cerchereste di creare un dialogo? Di parlare in modo attivo? Nella società funziona nello stesso modo. Se dimostriamo di essere consapevoli di una problematica, se ne lasciamo una testimonianza pubblica, sentiremo altre voci pronte a levarsi. Potremmo creare uno spazio di fiducia e sicurezza per coloro che denunciano un crimine. L'esempio del movimento #MeToo è abbastanza edificante da questo punto di vista. È proprio a questo che ci riferiamo quando parliamo di "ascolto che agisce".

D.: Il mondo occidente è spesso abituato a pensare che quando succedono dei crimini in Siria, in Giordania e in luoghi simili, allora questi crimini non li riguardano. È come se in qualche modo si disumanizzassero le vittime, solo perché vivono dall'altra parte del mondo. Avete avuto in qualche modo a che fare con questo tipo di atteggiamento durante le riprese o la raccolta di testimonianze?
R.: Sì, ed è proprio questo il problema. Come esseri umani siamo naturalmente portati ad esperenziare una maggiore empatia soprattutto sulla cerchia ristretta di persone che ci sono vicine. Il resto ci sembra sempre lontano e pare essere costituito solo da cifre e articoli di giornali. È una forma di sopravvivenza, perché non siamo in grado di incassare tutta la violenza del mondo. E allo stesso modo, neanche tutto l'amore del mondo. Ecco perché usiamo l'arte come mezzo principale per portare alla nascita di una forma di empatia. Viviamo in un'epoca in cui l'indignazione non basta più. Viviamo in un'epoca in cui bisogna scegliere da che parte stare.

D.: Che reazioni avete avuto con Zero Impunity?
R.: Del tutto positive. Le persone ci vogliano sostenere. Il nostro progetto funziona come un media. Un media che permette a delle ONG, delle personalità eminenti, degli attivisti e dei sopravvissuti di far sentire tutte le loro voci. Ecco perché abbiamo realizzato la collaborazione con la Fondazione Mukwege. Abbiamo l'occasione di dare un eco maggiore a quelle persone che invece agiscono sul campo, direttamente. La parola è un passo. La liberazione di questa parola ne è un altro. Ma l'eco. Solo l'eco è eterno. E quest'eco è il cittadino che deciderà di alzarsi, di ascoltare, di comprendere. E solo allora il cambiamento avrà luogo.

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