Roy Andersson, intervista al regista del film Leone d’Oro a Venezia 71
Intervista a Roy Andersson, regista del film 'A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence' che ha vinto il Leone d'Oro per il miglior film alla 71a Mostra del Cinema di Venezia.
di Redazione / 06.09.2014
E' stato assegnato il premio più importante, il Leone d'Oro per il miglior film, della 71a Mostra del Cinema di Venezia al film En duva satt pa en gren och funderade pa tillvaron (A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence) di Roy Andersson. Qui di seguito vi proponiamo l'intervista fatta al regista dal critico cinematografico Jon Asp, ricordando che è disponibile qui la nostra recensione al film.
Da cosa sono legati i film di "THE LIVING TRILOGY" e in cosa si differenziano?
R.A.: Sono convinto che ogni film possa, e debba, essere visto sempre individualmente. All'interno di un solo film, ogni scena può essere vista separatamente. A PIGEON ha 39 scene e la mia ambizione è che ognuna di esse possa apportare una diversa esperienza artistica al pubblico. In generale, THE LIVING TRILOGY chiede agli spettatori di esaminare la loro stessa esistenza, chiedendo loro"Cosa stiamo facendo? Dove siamo diretti?" Intende generare riflessione e contemplazione in merito alla nostra esistenza con una dose abbondante di tragicommedia, "Lebenslust", ossia passione per la vita, e un rispetto fondamentale per l'esistenza umana. THE LIVING TRILOGY mostra un'umanità potenzialmente diretta verso l'apocalisse, ma dice anche che il risultato è nelle nostre mani. SONGS FROM THE SECOND FLOOR è intriso di Millenarismo, dalla scena del venditore che butta via i crocifissi, simboleggiando l'abbandono della compassione e dell'empatia, alla scena delle case che si muovono, che evoca la paura di crisi finanziarie cicliche, esse stesse apocalissi minori. I temi della colpa collettiva e della vulnerabilità umana sono centrali in questo film. YOU, THE LIVING ha rappresentato un avvicinamento coraggioso ai sogni, una transizione che ha aperto un'intera serie di nuove possibilità per me. Prima, i miei personaggi commentavano i propri sogni. Oggi, A PIGEON, le scene semplicemente assomigliano a sogni, senza alcuna ulteriore spiegazione. A PIGEON è anche più ironico rispetto agli altri due film, e il tono preponderante è quello della "Lebenslust", anche se i personaggi sono tristi e soffrono molto.
Che cosa ha significato il passaggio dal 35mm al digitale per la lavorazione?
R.A.: Quando si invecchia, spesso è difficile cambiare il proprio metodo di lavoro, ma questa volta non è stato così. Vedo questo cambiamento, quello verso le riprese in digitale, in maniera molto positiva. Sono contento di aver imparato a utilizzare questo metodo, con l'aiuto dei miei straordinari collaboratori, naturalmente. Nella pratica mi ha permesso di poter utilizzare più facilmente i campi lunghi. Prima ero più concentrato sull'idea di mettere a fuoco lo sfondo e preoccupato da essa. Sono un sostenitore della profondità di campo e con le telecamere digitali è diventato possibile ottenere definizione a ogni distanza, penso sia una cosa fantastica. L'estetica astratta e pittorica di A PIGEON richiamerà quella dei miei lavori precedenti. Le immagini sono leggermente più luminose e definite, grazie all'utilizzo della telecamera digitale. Inoltre ho mirato a ottenere scene più dinamiche, in maniera che il nuovo film ricordasse meno una serie di quadri plastici e che avesse un ritmo più distinto. In generale, questo è il massimo di cui io e i miei collaboratori siamo capaci. L'abbiamo portato all'estremo.
La tua regia si ispira ai pittori, da quelli rinascimentali alla Neue Sachlichkeit, conosciuta anche come Nuova Oggettività, fino a Edward Hopper. Quali pittori sono stati più importanti per A PIGEON?
R.A.: Direi Otto Dix e Georg Scholz, i due artisti tedeschi le cui innovazioni artistiche sono state ispirate dalle loro esperienze nella Prima Guerra Mondiale. Le loro visioni del mondo, incrinate dalla guerra, colpiscono in un modo che sento molto vicino, senza che io abbia mai preso parte a una guerra. Quando ero giovane, il realismo era l'unica cosa che mi interessava. Tutto il resto era semplicemente strano (o meglio, borghese), ma col tempo sono stato sempre più affascinato dall'arte astratta, a partire dal simbolismo, dall'espressionismo, e dalla Neue Sachlichkeit. È molto più interessante di una pura rappresentazione naturalistica. Oggi trovo quasi noiose le rappresentazioni naturalistiche, mentre l'interpretazione personale dell'espressione astratta è straordinaria, e Van Gogh ne è il maestro. È in grado di dipingere tre corvi che volano su un campo di grano e di convincere lo spettatore di non aver mai visto una cosa simile. È una specie di "super-realismo", un obiettivo che ambisco a raggiungere con A PIGEON, in cui l'astrazione è condensata, purificata e semplificata. Le scene ne dovrebbero emergere ripulite, come ricordi e sogni. Sì, non si tratta di un compito facile: "c'est difficile d'être facile", è difficile essere facile, ma ci proverò. Bruegel il Vecchio costituisce un'altra ispirazione. Tra i suoi capolavori rinascimentali, ha dipinto un delizioso paesaggio intitolato Cacciatori nella neve. Dalla cima di una collina innevata, affacciata su un paesino fiammingo, vediamo la gente del villaggio pattinare su un lago ghiacciato in una valle. In primo piano, tre cacciatori e i loro cani tornano dalla caccia. Sopra di loro, appollaiati sui rami spogli di un albero, quattro uccelli osservano con curiosità gli sforzi e le attività delle persone sotto di loro. Bruegel era specializzato in paesaggi dettagliati popolati da contadini e utilizzava spesso una panoramica a volo d'uccello per raccontare storie sulla società e sull'esistenza umana. La sua opera contiene anche fantastiche allegorie dei vizi e delle follie dell'uomo, utilizzando una satira impeccabile per esprimere le contraddizioni tragiche dell'essere. In Cacciatori nella neve, gli uccelli sembrano chiedersi: "Cosa stanno facendo gli umani lì sotto? Perché sono così indaffarati? Vorrei anche citare un pittore naturalistico chiamato Ilja Repin, che ha realizzato un ammirevole dipinto di cosacchi. Gli ci sono voluti undici anni; si tratta di un'opera enorme, basata su bozze e schizzi. Dopo 11 anni era soddisfatto del dipinto. Oggi fa parte del patrimonio dell'umanità. Naturalmente sembra un po' presuntuoso ambire allo status di patrimonio dell'umanità, ma allo stesso tempo, come artisti, bisogna impegnarsi e portare la propria espressione a livelli estremi. Purtroppo è molto difficile al giorno d'oggi, con gli aspetti finanziari coinvolti nella creazione di film e con l'atteggiamento e i termini di assunzione dei registi. Gli uomini d'affari hanno conquistato l'espressione del cinema.
Trovi triste il fatto che i registi contemporanei non traggano più ispirazione dalla pittura?
R.A.: Lo trovo molto deprimente. È per questo, forse, che il cinema di oggi è così fiacco e poco interessante. Le immagini sono così povere. E questo è, a sua volta, dovuto all'economia: non c'è né il tempo né il denaro per essere più scrupolosi. Questo considerato, mi sembra molto triste che siano così pochi i registi di oggi pronti a curare gli elementi visuali della regia, anche se questo richiede tempo e denaro. Mi ci sono voluti quattro anni di lavoro a tempo pieno per completare questo film.
Siete riusciti a lavorare senza i proventi delle pubblicità?
Sì, a differenza dei due film precedenti di THE LIVING TRILOGY, abbiamo finanziato A PIGEON senza fare pubblicità durante il processo. Anche se un po' di soldi in più ci avrebbero fatto comodo in alcuni momenti, ho trovato molto gratificante il fatto di potermi concentrare completamente sul film.
Quando è uscito SONGS, nel 2000, descrivevi il tuo stile come una specie di "trivialismo". Questo vale ancora?
R.A.: Sì penso che A PIGEON sia un esempio ancora più chiaro di ciò che considero come "trivialismo". Si tratta della trivialità trasformata in un'esperienza più attraente. E questo si applica anche alla pittura in generale, tutta la storia dell'arte è piena di trivialità perché esse fanno parte delle nostre vite, delle nostre premesse nella vita. Adoro questa cosa, e un domani vorrei diventare anche più triviale di quanto non lo sia stato in questo film. Anche di più che nelle scene con il re svedese Carlo XII che torna al campo di battaglia di Poltava, dove appare inaspettatamente in situazioni molto triviali, prima quando gli viene sete e poi quando ha bisogno di andare in bagno.
La presunta omosessualità di Carlo XII è messa in risalto per fare apparire questo conquistatore così mascolino ed eccentrico più umano?
R.A.: In Svezia lui è generalmente considerato un vero macho e di conseguenza un forte simbolo per molte organizzazioni di destra. Ma oggi nutro un forte rispetto per la bellezza della scena, specialmente quando il re all'improvviso si sente così legato al giovane barista. Ne sono molto soddisfatto. In fondo, in qualunque posizione si sia nella società, le persone sono sensibili e vulnerabili. Illustrare questo è fondamentalmente ciò che voglio ottenere con il mio lavoro.
Pensi che nel mondo ci sia una sempre maggiore mancanza di compassione ed empatia?
R.A.: Abbiamo tutti provato compassione almeno una volta. Mi dispiace molto, a tutti noi dispiace, il fatto che questo elemento sia spesso represso nel nome dell'affarismo. Mi riferisco a Emmanuel Levinas, che parla della dignità dell'essere umano e del rispetto per un'esistenza diversa, per un presente diverso, che è gratificante. In una delle scene del mio film, un anziano si pente del comportamento crudele e avaro che ha mantenuto in tutta la sua vita: "È per questo che sono stato così infelice", dichiara a un cameriere. Ma le parole non bastano a creare una comprensione completa e una comunicazione totale, il che in qualche modo spiega la mancanza di parole di THE LIVING TRILOGY. Penso che il ritratto visuale dell'essere umano, sia nella pittura che nel cinema, ci dica più delle parole. Non posso spiegarlo in altro modo. È anche per questo che mi piace, per esempio, Aspettando Godot di Beckett: è così triviale, laconico, con queste persone che non si capiscono, eppure così autentico. Le mie scene vogliono mostrare le incomprensioni e gli errori commessi da persone che si incontrano ma non entrano davvero in contatto perché pensano di avere poco tempo per ottenere ciò che loro ritengono importante.
Sembri nutrire un affetto particolare per i venditori: i protagonisti dei tuoi film vendono crocifissi, frigoriferi, e in A PIGEON, degli oggetti per far ridere la gente. È una specie di autoritratto?
R.A.: In un certo modo, questo deriva dalla mia infanzia, da membri della famiglia che vendevano cose. Ma essere un venditore è così universale, è quasi un sinonimo della vita. La vendita e la pubblicità, si potrebbe dire, sono i fondamenti di una società civilizzata. Convincerò questo fondo o quell'emittente televisiva del fatto che questo sia interessante e importante. Io stesso sono un venditore, e tutti noi lo siamo. Dobbiamo promuovere noi stessi e comunicare tramite le nostre cose e le nostre idee.
Come ti è venuta l'idea di far vivere i due venditori in un albergo di pessima categoria?
R.A.: L'hotel è una conseguenza diretta del mio trascorso a Göteborg. Il posto in cui sono cresciuto oggi è una bettola, e purtroppo mio fratello, che fa uso di droghe da molto tempo, è finito lì. Quindi conosco bene la vita in quell'ambiente. In senso più ampio, questi compagni sono modellati direttamente sulla letteratura: Don Chisciotte e Sancho Panza, Uomini e Topi di John Steinbeck e come non citare, dalla storia del cinema Stanlio e Ollio, anch'essi una fonte di ispirazione per Beckett. Gli uomini nel film sono una versione di Stanlio e Ollio. Uno di loro è un po' tronfio, mentre l'altro non è molto sveglio; è un po' più triste e piange facilmente. Sono stato molto ispirato da queste coppie maschili della storia culturale.
E nella loro relazione impari, i due venditori rappresentano anche l'universo più in generale, l'oppressore contro l'oppresso.
R.A.: Sì, che sta diventando sempre più evidente. Oggi ho parlato con il mio direttore della fotografia, István Borbás, di questo problema diffuso, di una società con sempre meno solidarietà. Oggigiorno siamo spinti a pensare soltanto a noi stessi, ad aumentare il nostro guadagno approfittandoci degli altri. Non oso pensare alle conseguenze terribili di questo comportamento. È un disastro, un'alienazione che farà perdere qualunque fiducia ai giovani. Odio l'umiliazione, vedere altre persone essere umiliate ed essere umiliato io stesso. In un certo senso, tutti i miei film trattano di umiliazione. Sono nato in una famiglia operaia e ho visto alcuni parenti umiliarsi davanti ai propri superiori, mostrando un rispetto esagerato per l'autorità, che li rendeva incapaci di parlare, per poi lasciarli con un senso di colpa. Ho provato questa sensazione tutta la vita ed ho deciso di lottare contro di essa.
E questa lotta ha avuto successo?
R.A.: Sì, nel senso che non sono come i miei nonni, non ho per nulla paura delle classi dirigenti. Ma vivrò con questa umiliazione tutta la mia vita, e con un odio nei confronti dell'autorità. Questa è anche la ragione principale del mio uso ricorrente di caricature di monarchi. È un modo per bestemmiare contro la storia della classe dirigente. In A PIGEON c'è anche una scena, ordinata rigorosamente, in cui un crimine terribile è inserito in un contesto storico fittizio. È quasi una provocazione, con questa combinazione di crudeltà e bellezza. Mi riferisco alla scena dello sterminio, verso la fine del film. I colonialisti britannici costringono gli schiavi a entrare in un cilindro di rame e dalle ultime grida delle vittime nasce una musica lenta e bellissima. Per un artista è importante, necessario persino, smuovere i preconcetti, suscitare, aumentare il senso di colpa nel mondo. Siamo ancora tenuti a provare vergogna. Ho questa scena in mente da 50 anni, e in essa vi sono anche molti riferimenti storici. Sono molto felice di essere riuscito a realizzarla senza servilismi o sentimentalismi. In A PIGEON, ci sono numerose scene di questo tipo. Ho cercato, perlomeno, di creare una grande tensione tra il banale e l'essenziale, il comico e il tragico, ma anche le scene tragiche contengono energia e ironia. Vedo A PIGEON come un film comico dall'inizio alla fine, emozionante e edificante. Ma di quando in quando, il pubblico assisterà anche a delle esplosioni di terrore. Sarà un'estensione di sentimenti che vanno dall'ironia all'orrore.
THE LIVING TRILOGY ora è terminata. Questo è anche l'ultimo film che possiamo aspettarci da Roy Andersson?
R.A.: No, in realtà sto già lavorando su un nuovo film. Sarà ancora più feroce, con ancora più fascino e richiamo. Anche A PIGEON è così, ma il prossimo sarà ancora più spregiudicato. Non abbandonerò mai il probabile e il possibile. La mia regia dev'essere connessa a una certa praticità, una specie di realismo stilizzato.
Continuerai con il tuo stile che include composizioni ampie e una telecamera statica, con scene di una sola ripresa?
R.A.: Yes, this way of working allows me to locate the characters in the universe that surrounds them instead of isolating them. I cannot even watch films that cut consistently to speed up the story. I am committed to these visual values, creating the space for a more open, more democratic composition. There is a French sociologist, Loïc Wacquant, a student of Bourdieu, whom I sometimes quote. When he returned to France after a time as a guest professor in the US, he described what he found as an American phenomenon: "hostility against clear thinking". Conversely I consider the composition of my work to favour clear thinking. Everything is there, fully lit. Together with my collaborators I am trying to contest "hostility against clear thinking".