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Waiting For The Barbarians, recensione [Venezia 76]

'Waiting for the Barbarians' chiude il concorso della 76a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e lo fa con i toni sommessi e noiosi di un film vuoto e superficiale

Con Waiting for the barbarians si chiude il concorso della 76a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia: il film di Ciro Guerra è infatti l'ultimo della selezione che è stato presentato al pubblico, alla fine di una seconda settimana di proiezioni che è parsa decisamente inferiore all'apertura, quando film come Joker e Marriage Story avevano conquistato la critica. Cosa che, purtroppo, non accade con questa pellicola con cui Ciro Guerra – regista colombiano – si apre al cinema statunitense. E per farlo sceglie un cast di tutto rispetto, guidato dal premio Oscar Mark Rylance, nei panni di un magistrato posto a difesa di un forte perso in una frontiera senza alcuna collocazione spaziale e che risponde ad un impero che rimane senza nome e senza patria, in una sorta di labirintica distopia dove il potere rimane ammantato di mistero per coloro che sono chiamati a farne rispettare le regole. Come alter-ego di questo personaggio buono e gentile c'è il colonnello interpretato da Johnny Depp, che arriva in questo angolo di deserto per indagare su un possibile e imminente attacco di misteriosi barbari e che non si fa scrupoli a utilizzare la tortura per ottenere le dichiarazioni di cui ha bisogno. Nel cast, in un piccolo ruolo, c'è anche Robert Pattinson, che al Lido era già stato visto nel deludente The King.

Waiting for the barbarians avrebbe potuto essere un film davvero interessante, capace di trattare tematiche non indifferenti, che potevano spaziare dalla brutalità della tortura alla sua inefficacia, passando per il tema sempre attuale dell'attesa e del senso di minaccia che arriva da ciò che esterno e sconosciuto, da ciò che non si vede, ma che si percepisce come minaccia solo per la sua appartenenza ad un mondo collocato fuori da una ipotetica quanto invisibile frontiera. Di tutti questi temi non c'è che un accenno scoordinato e goffo, qualcosa che viene messo in mostra solo per mero esercizio retorico e che non ha alcun legame con quanto viene messo in scena, che risulta essere solo lo svogliato tentativo di un regista di fare un film autoriale. Il risultato è invece una pellicola lenta e noiosa, dove tutto è uguale a se stesso, comprese le inquadratura. Un film in cui la tortura non viene mai mostrata, né suggerita, ma solo spiegata. E in un mezzo linguistico come quello cinematografico, dove l'immagine è lo strumento principe per arrivare al cuore dello spettatore, la spiegazione non può bastare. C'è bisogno di sentire la violenza che viene raccontata, di mostrare quelle azioni che poi daranno il via a tutte le altre. Di quelle azioni, in Waiting for the barbarians, non c'è nemmeno l'eco debole.

Inoltre tutti i personaggi messi in scena risultato essere solo delle macchiette, volti vaghi di sentimenti che sembrano essere stati prefabbricati: il magistrato impotente ma dal cuore buono che si ribella allo status quo di un volere militare soverchiante e l'algido e crudelissimo colonnello che non si prende nemmeno la briga di rispondere alle più cortesi regole dell'educazione militare pur di dimostrare il suo cuore adamantino e la sua determinazione a svolgere un lavoro che sembra derivare direttamente dagli antri più oscuri dell'inferno. Mark Rylance e Johnny Depp appaiono del tutto fuori luogo in questo film fatto di campi lunghi e vuoti non solo di presenza umana, ma anche di qualsiasi approccio di tipo empatico. Ci si trova davanti a quello che sembra una brutta copia de Il Deserto dei Tartari, il capolavoro di Dino Buzzati con cui il film di Ciro Guerra condivide l'ambientazione e quel senso di soverchiante attesa che non porta a niente. Ma laddova l'attesa era pregna di tensione in Buzzati, qui rischia di diventare solo un immenso vuoto dove lo spettatore corre costantemente il rischio di perdersi nella propria noia.

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