'Una vita' è un film eccessivamente contemplativo, che utilizza piani lunghi e sequenze estenuanti per dare allo spettatore la sensazione di provare sulla propria pelle i sentimenti che compongono l'esistenza della protagonista messa in campo.
Presentato alla scorsa Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, Una vita è il nuovo film di Stephane Brizé, conosciuto soprattutto per essere stato dietro la macchina da presa del film La legge del mercato. Tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore francese Guy de Maupassant, Una vita – Une vie racconta l'esistenza nella sua interezza della giovane Jeanne, che passa da un'esistenza in collegio a una vita domestica fatta di innocenza e ingenuità, fino al matrimonio con un visconte dai modi spicci e dalla tendenza all'imbroglio e al tradimento. La vita della donna, così, abbandona i sapori onirici delle fantasie adolescenziali e, negli anni della prima metà dell'ottocento, fronteggia la miseria, l'infelicità e l'umiliazione, trovando solo nell'amore del figlio una via di fuga alla sua tristezza. Questo finché persino il figlio Paul non finirà con l'essere la brutta copia di suo padre.
Stephane Brizé dirige, con Una vita, un film eccessivamente contemplativo, che utilizza piani lunghi e sequenze estenuanti per dare allo spettatore la sensazione di provare sulla propria pelle i sentimenti che compongono l'esistenza della protagonista messa in campo. Perché la vita di Jeanne è una vita fatta di abitudini, di lente osservazioni, di silenzi che si nascondono in una casa dove le candele non possono essere sprecate e il fuoco non può essere acceso per riscaldare un nido domestico che non potrebbe essere più glaciale. Il risultato, però, è spesso un film che invece di suscitare empatie con le disavventure della protagonista, finisce con l'indispettire lo spettatore medio. Uno spettatore che si trova a smaniare in poltrona, a sbuffare tra un lungo silenzio e il successivo, guardando uno schermo dove il dispiegarsi di una vita umana sembra del tutto priva di attrattiva o, comunque, di materiale narrativo tale da giustificare la scelta di trasporre il primo romanzo di De Maupassant.
Oltretutto la pellicola è girata in un rigoroso 4:3 – contro il 16:9 a cui siamo ormai abituati -, dando l'idea che il regista volesse confezionare un film statico, incastrato nel passato a cui appartiene. Ancora una volta, lo spettatore finisce con il rimanere soffocato da questo stile riflessivo, da questo lento avvicinarsi ai primi piani dei personaggi, cercando di sondare ogni minimo poro della loro pelle. Sebbene il paragone tra stile registico e tema narrativo regga alla perfezione, e si possa tranquillamente applaudire al regista per la sua tenacia nel raccontare anche attraverso il mezzo di cui dispone la storia da cui trae ispirazione, il risultato è un prodotto di nicchia, che sembra respingere il pubblico più che chiamarlo a sé.
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