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Sly, recensione del documentario su Stallone disponibile su Netflix

'Sly' è il nuovo documentario dedicato a Sylvester Stallone disponibile da qualche giorno su Netflix. Ecco la nostra recensione

Solo pochi mese fa su Netflix ha fatto il suo debutto Arnoldla docuserie in tre episodi che si poneva il compito di raccontare i tre volti della carriera di un mito degli anni Ottanta (e non solo) come Arnold SchwarzeneggerDi sicuro nessuno è rimasto sorpreso quando è stato annunciato che l’antagonista e rivale dell’attore tedesco, Sylvester Stalloneera pronto a raccontarsi in un documentario che sarebbe arrivato sulla stessa piattaforma di streaming on demand. Sly è approdato da qualche giorno su Netflix e già sta facendo parlare di sé per le tante cose che Stallone ha voluto raccontare, mettendosi a nudo in un prodotto che non vuole celebrare solo la sua carriera, ma ripercorrere anche dubbi, rimpianti e nostalgie varie.

Sly racconta una leggenda degli anni Ottanta: Sylvester Stallone

Sylvester Stallone, chiamano Sly da amici e fan, non è un attore che ha bisogno di presentazioni. Come le altre grandi icone della settima arte, il suo nome è diventato già leggenda e fa parte dell’immaginario collettivo come un bagaglio culturale condiviso da tutti. Tutto è iniziato negli anni Settanta quando, a un passo dalla bancarotta e stanco di avere ruoli troppo piccoli o mediocri, Stallone decide di scrivere da sé il film in cui gli sarebbe piaciuto apparire. È così che nasce Rocky, primo capitolo di una saga cinematografica che è andata avanti a lungo, che si è allungata fino alla saga spinoff dedicata ad Adonis Creed. In Sly Stallone racconta la sua carriera quasi partendo proprio dal personaggio che non solo gli ha dato il primo assaggio di notorietà, ma gli ha permesso anche di affrontare determinati aspetti della sua vita personale, come il difficile rapporto con il padre ma anche il desiderio di essere un padre migliore per il figlio Sage Stallone, che comparirà in uno dei capitoli di Rocky, e che purtroppo verrà a mancare in tenerissima età. Il lutto, però, è un argomento che Stallone affronta solo en passant, con una scritta sullo schermo o lo sguardo appena più spento quando si chiude nelle sue riflessioni. Tuttavia è proprio questo livello di intimità che l’attore e regista e sceneggiatore vuole rincorrere in questo racconto. Non solo la celebrazione di una carriera che lo ha reso un volto noto a livello globale, ma anche la débâcle del periodo delle commedie, le scelte sbagliate, il rimpianto per aver inseguito la carriera quando invece avrebbe potuto passare più tempo con la sua famiglia. In Sly la leggenda degli anni Ottanta si sveste della sua dimensione più apertamente mitologica e cerca di scendere di nuovo nella dimensione più umana, con le sue imperfezioni e i suoi difetti. Un proposito senz’altro nobile e senza dubbio molto interessante, che rende questo documentario potenzialmente diverso dagli altri. Stallone ammette i suoi errori e i suoi limiti, ammette le decisioni che ha preso senza pensare in modo lungimirante e si mette sempre al centro di un forte esame di coscienza. Il problema, però, è che allo spettatore arriva anche una certa sensazione di “artificiosità”, come se Stallone stesse recitando le sue stesse ambizioni narrative, come se avesse già deciso a tavolino cosa dire, in che modo dirlo. Il risultato è un racconto che a volte scivola nel retorico se non proprio nel melodrammatico, in cui la verità è visibile solo attraverso le pieghe di alcuni momenti, ma mai davvero nella sua totalità. Da questo punto di vista, dunque, si può dire che l’operazione è riuscita esclusivamente a metà.

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