'The Knife that killed me' è una pellicola che si fonda quasi interamente sulla scelta estetica di un mondo ridotto ad una scala di grigi, una sorta di girone dantesco ottenuto con il green screen, in cui si muove un'adolescenza shakespeariana fatta di violenza, soprusi e tensione all'autodistruzione.
Tratto dal bestseller omonimo di Anthony McGowan, The Knife That Killed Me di Kit Monkman e Marcus Romer è uno dei titoli che concorrono per il premio nella sezione autonoma di Alice nella città, all'interno della kermesse capitolina, giunta alla sua nona edizione: il Festival Internazionale del Film di Roma. La pellicola, presentata alla presenza di alcune classi di licei romani, è incentrata sulle (dis)avventure di Paul (Jack McMullen), adolescente che dopo la morte della madre si trasferisce nella città natale del padre, dovendo così affrontare l'incubo di un nuovo primo giorno a scuola, una sorta di girone dantesco dove il male sembra aver trovato dimora. A scuola, Paul è diviso dalla seduzione del potere operata dal bullo Roth (Jamie Shelton), l'amore per Maddy (Rosie Goddard) e l'amicizia con Shane (Oliver Lee), leader di un gruppo di emarginati che si autodefiniscono freaks. In questo scenario, Paul dovrà capire da che parte stare e, mentre insegue il fantasma della madre collegato ad una segreteria telefonica ormai fatta puramente di etere, si troverà immischiato in una guerra con la gang della scuola rivale.
George Lucas, una volta, ha detto che gli effetti visivi, per quanto stupefacenti possano essere, se non sono al servizio di una buona storia, non sono altro che un affare decisamente noioso. The Knife that killed me è, a conti fatti, una pellicola che si basa quasi interamente sul suo aspetto visivo, ottenuto grazie all'utilizzo massiccio, totale perenne del green screen. Ed è proprio la scelta stilistica con cui è stato pensato e realizzato l'aspetto più interessante di questo film quasi indie, che sembra vivere fuori dai percorsi prestabiliti dell'industria cinematografica britannica. A metà strada tra lo spazio scenico re-inventato di Dogville e il bianco e nero astratto di Sin City, il mondo di The Knife that killed me è un collage misto, un insieme di parti mancanti di un puzzle gigante. L'atmosfera è ferrosa, cupa, piena di tonalità scure che si uniscono ai nembocumuli che gravano sulla testa del protagonista e che sembrano avvolgerso in una sorta di oscurità da cui non si può scappare. A questo si unisce una costruzione scenica a volte più concreta e a volte più sfuggente, piena di parole scritte sul nulla di una quarta parete inesistente, disegni che tornano come ossessioni e incubi; indizi, questi, di una storia più ampia, il cui senso generale diventa leggibile solo alla fine della pellicola, quando lo spettatore si trova armato di tutti gli elementi utili per decifrare un codice stilistico che è, come dicevamo, l'elemento distintivo di questa operazione. Sì perchè, proprio come è stato dichiarato dai due registi, The Knife that killed me è prima di tutto un esperimento, una sperimentazione tecnica e strutturale che, se in un primo momento può lasciare basiti o comunque trasmettere un senso di disorientamento e di disagio, alla fine diventa una sorta di creatura tentacolare che allunga i suoi artigli verso chi è seduto in poltrona, afferrandolo e trascinandolo in un tango macabro, teso, e pieno di ombre. In questo senso, allora, non si può scindere The Knife that killed me dalla tecnica con cui è stato realizzato: perchè proprio lo stile è il cuore pulsante del racconto, il suo marchio distintivo, il motivo per cui qualcuno possa desiderare di comprare il biglietto del cinema.
Tuttavia va detto che anche il reparto contenutistico non lascia delusi; il merito, senza dubbio, va allo scrittore che ha ideato questo racconto di perdita, autodistruzione e perdita della libertà. Difficile parlarne senza svelare nessun elemento, visto che The Knife that Killed me è una pellicola che va recepita, accolta e compresa poco alla volta, proprio per non mandare persa la struttura a balzi voluta dai creatori, che creano un labirinto narrativo con svolte improvvise, salti temporali ed inganni di sceneggiatura che prendono lo spettatore in contropiede, costringendolo a rivalutare ogni scena vista. Dove, comunque, il film funziona di più è senza dubbio nel ritratto di una realtà scolastica molto più vicina a quanto avviene quotidianamente di quanto ci piaccia pensare. Una realtà fatta di soprusi e violenze, dove vige la regola del più forte e dove a farla da padrone è un'omertà di fondo, in cui la paura impedisce alla giustizia di farsi largo tra tutti gli sbagli, le risse, i soprusi. In The Knife that killed me c'è qualcosa di profondamente shakespeariano, qualcosa che sembra richiamare Amleto, qualcosa da cui non si può sfuggire: una condanna che aleggia per tutto il film e che tiene lo spettatore avvinto e, al tempo stesso, disgustato. Il tutto reso da dialoghi e monologhi in voice-over che aprono le porte a numerose riflessioni ma anche a sentimenti tutt'altro che positivi: guardando questa pellicola il pubblico si trova costretto ad affrontare il suo odio, il suo bisogno di vendetta e di farsi giustizia da sè. Questo film sembra tirare fuori non solo il peggio dei suoi protagonisti, ma anche di chi decide di guardarli. Tutto questo non sempre funziona alla perfezione e ci sono dei momenti in cui la ridondanza di scrittura appesantisce la diegesi, mentre la tecnica scelta a volte sembra troppo sopra le righe anche per la cifra stilistica utilizzata. Eppure, nonostante questo, possiamo dire che se The Knife that killed me è solo un primo esperimento, è lecito aspettarsi molto da questi cineasti divisi a metà tra immagini e parole.
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