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Made in Italy, recensione del film di Ligabue

Dopo una lunga attesa, Luciano Ligabue torna al cinema col suo terzo film da regista, una storia d'amore e frustrazione dedicata al nostro Paese, con una coppia di protagonisti in sintonia.

Made in Italy è il titolo del terzo film da regista di Luciano Ligabue, che torna a cimentarsi dietro la macchina da presa ispirandosi, stavolta, all’omonimo concept album uscito nel 2016 (e, prima ancora, al brano Non ho che te).

Mi chiamano tutti Riko” così si presenta il protagonista, concepito inizialmente come una sorta di alter ego del cantautore. Riko (Stefano Accorsi) fa l’operaio in una fabbrica dove insacca mortadelle, è sposato da molti anni con Sara (Kasia Smutniak) e padre di un figlio. Un lavoro che sembra sempre più precario, una vita matrimoniale stanca e indebolita, la compagnia degli amici, scandiscono l’esistenza dell’uomo, sempre più frustrato di fronte a un futuro incerto, in cui attende un cambiamento ma senza sapere come metterlo in pratica. La vita dei protagonisti, consolidata nella sua monotonia, subisce una serie di scossoni che metteranno tutto in discussione.

Per parlare di Made in Italy si potrebbe partire facendo riferimento a un dialogo di Radiofreccia, esordio registico di Ligabue, in cui si teorizzava un futuro in cui si sposa la prima fidanzatina, si parla in dialetto con gli amici e in italiano davanti al capo, si lava la macchina la domenica, e così via. Ecco che Riko e Sara sono, per certi versi, l’incarnazione di quel futuro, persone oneste ma imperfette, che si sentono tradite e deluse dallo Stato, e forse in fondo anche dai propri sogni.

La loro è una storia d’amore complicata fra due persone che, per estensione, rappresenta quella tra un individuo e le proprie radici, sia familiari che geografiche. A partire, infatti, dalla provincia del film (ancora una volta l’amata Emilia) si arriva a parlare dell’Italia tutta: il sentimento di frustrazione nei confronti del nostro Belpaese è un tema caro al Liga già nelle sue canzoni, e che ritorna nel film. La riscoperta delle bellezze nostrane va di pari passo con quella della propria identità, e con la ricerca del proprio posto in una realtà fatta tanto di fallimenti quanto di riscatti.

Made in Italy è un film che carbura lentamente, decollando definitivamente solo nella seconda parte: all’inizio presenta personaggi e situazioni, che a volte vengono appena abbozzati senza essere approfonditi o sfruttati, nonostante il loro potenziale. Non è, come si potrebbe pensare, un musical, anche se la musica è ovviamente presente: oltre ai brani del già citato disco, sia in versione cantata che strumentale, e canzoni in particolare anni ’80 (tra cui la bellissima Song to the siren).

L’obiettivo è puntato su persone sotto ogni aspetto “normali” ma che, a osservarle da vicino, diventano eccezionali nella loro unicità, con uno sguardo, però, che non cerca il neorealismo: è evidente, come già negli altri film del regista, l’attenzione all’immagine e la ricerca di un proprio linguaggio registico, con dettagli e trovate visive, in certi casi un po’ vezzosi.

Stefano Accorsi (di nuovo protagonista per Ligabue, vent’anni dopo Radiofreccia) e Kasia Smutniak rivelano sullo schermo una buona alchimia di coppia ed è anche per merito loro che ci si affeziona a Riko e Sara e si esce dalla sala facendo il tifo per loro e con loro, all’insegna della fiducia e dell’ottimismo.

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