Light of My Life, la recensione (Berlinale69)
Light of My Life è il secondo film da regista di Casey Affleck e tratta del rapporto padre-figlia in una ambiente ostile come è quello distopico dove la maggior parte della popolazione femminile si è decimata a causa di una rara epidemia.
di redazione / 11.02.2019 Voto: 7/10
Dopo il successo del mockumentary sulla figura dell'amico Joaquin Phoenix dal titolo Joaquin Phoenix – Io sono qui! (2010), Casey Affleck torna dietro la macchina da presa in un piccolo film distopico che tratta del rapporto padre-figlia.
Rag è una delle poche bambine femmine sopravvissute a un'epidemia che ha decimato la popolazione e, assieme al padre, vaga per le terre selvagge degli Stati Uniti continuando a scappare da una minaccia che da semplice paura fittizia si tramuta ben presto in un pericolo concreto.
Light of My Life racchiude in sé tanti elementi tipici del genere distopico ma non è semplicemente una corsa contro il tempo che incombe. Il film di Affleck è una lettera d'amore ai suoi figli, un film che è stato ideato partendo da una vicenda personale e che, dopo anni di lavoro, è riuscito ad potare in un Festival importante come quello di Berlino, anche se in una sezione parallela. Qui non è in questione l'epidemia e la sopravvivenza ma sono i rapporti che contano e che si evolvono nel corso della diegesi. La piccola Rag che incontriamo all'inizio è solamente una bambina con tanta curiosità che molte volte diffida dall'ascoltare il padre ma alla fine sarà proprio la sua caparbietà, che tanto metteva in pensiero l'uomo, a salvare entrambi.
Il personaggio di Casey Affleck, di cui non sappiamo il nome, ha come unica missione proteggere la bambina dai pochi uomini che sono rimasti in vita; è questa la promessa che ha fatto a sua moglie prima che lei morisse. Il percorso di Rag e il padre diventa quindi occasione di crescita per entrambi, Rag impara da qualsiasi cosa le accada e pretende che il padre soddisfi qualsiasi sua curiosità sulla vita. È qui che Light of My Life si colora di sfumature filosofiche che trattano, per esempio, la differenza tra morale ed etica, la religione, la contrapposizione tra bene e male, etc.
La regia di Affleck, anche produttore e sceneggiatore, è delicata e misurata nel mostrare il legame che persiste tra il padre e sua figlia. La camera è sempre molto vicina ai volti dei due protagonisti come se accogliesse lo spettatore nella loro sfera intima fatta di carezze, storie raccontate dentro i sacchi a pelo, preoccupazioni e dolori. Ed è proprio per questi motivi che Affleck e il suo direttore della fotografia Adam Arkapaw (già noto per la prima stagione di True Detective) scelgono di evitare la sovrabbondanza di close-up prediligendo le inquadrature d'insieme dove padre e figlia si trovano nella stessa inquadratura.
Il film, come spiega Affleck, nasce dalla voglia di raccontarsi e, nel corso degli anni, è evoluto parecchio fino ad arrivare a questa nuova versione inconsapevolmente contemporanea. L'idea iniziale sarebbe stata quella di raccontare il rapporto tra un padre e suo figlio ma, nel confronto diretto con i figli dell'attore e regista americano, Affleck ha capito che loro non sarebbero stati contenti nel mettere sullo schermo qualcosa che li riguardasse e, in questo senso, c'è una scena all'inizio del film che effettivamente racconta questo frangente della scrittura di Affleck. Rag, come i figli del regista, non vuole apparire nelle storie che il padre le racconta.
Pur accostandosi a film di genere come The Road, Light Of My Life si differenzia da altri titoli per la dolcezza con la quale Affleck racconta questo percorso di crescita e di vita come se questo film fosse effettivamente un ritratto di se stesso su un libro destinato prevalentemente ai suoi bambini.