La cuoca del presidente, la recensione
Recensione del film La cuoca del presidente di Christian Vincent con Catherine Frot, Hippolyte Girardot. Come il cibo diventa espressione del gusto personale e l'emblema della funzione sociale che svolge.
di Matilde Capozio / 01.03.2013 Voto: 7/10
Cinema e cucina: un connubio più volte esplorato, spesso con esiti più che fortunati, si arricchisce ora di un nuovo tassello con La cuoca del presidente, produzione francese diretta da Christian Vincent, che torna alla regia di un lungometraggio dopo Hotel a cinque stelle del 2006, e sceneggiata dal regista insieme a Etienne Comar, autore del grande successo Uomini di Dio.
Il film è liberamente ispirato alla vera storia di Danièle Delpeuch, prima e forse ancora unica donna ad essere assunta all'Eliseo come cuoca del Presidente della Repubblica, che nel 1997 ha pubblicato un libro per raccontare la sua esperienza, Mes carnets de cuisine, du Périgord à l'Elysée.
Protagonista della pellicola è Hortense Laborie, donna di mezza età e cuoca rinomata, che da una fattoria di campagna viene invitata, con suo grande stupore, a diventare responsabile della cucina personale del Presidente della Repubblica francese. Nonostante Hortense dichiari di non avere grande esperienza nella preparazione di piatti elaborati e raffinati, riesce a conquistare il Presidente grazie alla sua arte culinaria fatta di sapori genuini che si ispirano ai ricordi d'infanzia; la sua attività non è invece vista di buon occhio dagli altri chef che operano nelle cucine principali del Palazzo, oltre che dai numerosi collaboratori del Presidente che le creano numerosi ostacoli.
In La cuoca del presidente non si parla mai direttamente di politica, preferendo raccontare il palazzo dell'Eliseo "dal basso", per arrivare, tuttavia, a tracciare dei parallelismi tra la figura della cuoca e quella del Presidente: entrambi infatti mettono passione, tecnica e tenacia nel proprio lavoro, cercando di svolgere il loro compito nel miglior modo possibile senza renderne conto a troppi intermediari , ma finendo talvolta per sacrificare la propria vita privata; il cibo come strumento in grado di unire le persone sul piano della semplicità, di un bisogno essenziale ed evocativo. Il potere della cucina, quindi, ma anche, analogamente, la cucina del potere: fin dalla scena dell'arrivo di Hortense nel palazzo, la sceneggiatura si prende gioco dei meccanismi e degli assurdi rituali connessi al potere, mostrando la totale estraneità della donna ad essi, e ci mostra come questa diversità non aiuti l'attività della cuoca, trattata con quell'atteggiamento di sospetto e ostilità che le gerarchie impongono verso gli outsider.
Non è casuale che, alla narrazione degli anni di Hortense nelle cucine dell'Eliseo, La cuoca del presidente contrapponga, in parallelo, un'altra importante esperienza di vita e di lavoro della cuoca: un periodo trascorso in Antartide, in una sperduta base di ricerca immersa nella natura selvaggia e ostile, a preparare i pasti per un gruppo di scienziati; un incarico apparentemente meno sfarzoso ma ricco di contatto umano, calore e gratitudine.
Il cuore del film è sicuramente l'interpretazione di Catherine Frot e la sua perfetta aderenza al personaggio di Hortense: una donna in fondo sola, che riesce probabilmente ad esprimersi al meglio solo attraverso i suoi piatti (l'iniziale diffidenza verso il suo giovane assistente si trasforma in amicizia grazie alla loro intesa in cucina), riservando al suo lavoro un'eleganza e un'accuratezza spesso compensate da modi più acerbi verso chi non apprezza a fondo il suo lavoro. Il cibo diventa così non solo espressione del gusto personale, ma anche emblema della funzione sociale che svolge, specialmente in un contesto istituzionale nel quale il pasto diventa una cerimonia quasi rituale, un modo di apprezzare i prodotti e i sapori del proprio Paese.
Non solo gli occhi ma anche il palato viene stuzzicato dai primi piani che illustrano la preparazione delle pietanze, simbolo di un appetito per i piaceri della vita che non tutti riescono a condividere; con una riflessione dai toni tutto sommato più malinconici del previsto, si suggeriscono la delusione e l'insicurezza di chi in fondo fa un mestiere indirizzato a soddisfare qualcun altro, con esiti a volte soddisfacenti, a volte deludenti.