L’altra metà della storia, la recensione
Un grande Jim Broadbent protagonista di un film sul valore dei ricordi e sugli aspetti nascosti della personalità, in un intreccio di generi con sorpresa finale.
di Matilde Capozio / 11.10.2017 Voto: 6/10
Quanto spesso raccontiamo la storia della nostra vita? Quanto spesso la abbelliamo, modifichiamo, facciamo degli astuti tagli? È la domanda retorica che si pone l’anziano Tony Webster, protagonista del film intitolato, per l’appunto, L’altra metà della storia.
Tony (Jim Broadbent) è un pensionato che conduce una vita tranquilla e monotona, gestendo, più per piacere che per guadagno, un negozio di vecchie macchine fotografiche. È separato da tempo, e in procinto di diventare nonno, quando riceve una lettera che lo informa di un’eredità inaspettata: il diario di un suo amico dei tempi del college, finito però nelle mani di una ex fidanzata la quale rifiuta di farglielo recapitare. Questo evento porta Tony a cominciare un viaggio nel passato, e soprattutto nella memoria: grazie a una serie di flashback, osserviamo il giovane Tony (interpretato in queste scene da Billy Howle) destreggiarsi tra scuola, amicizie, primi amori, fino a scoprire l’impatto di quegli anni sulle vite non solo del protagonista, ma anche di tutti coloro a lui vicini.
L’altra metà della storia (tratto dal breve romanzo Il senso di una fine di Julian Barnes, vincitore del Man Booker Prize nel 2011) è diretto da Ritesh Batra: il regista indiano si era già fatto notare per il suo tocco delicato nel raccontare storie di amori complicati nel suo bell’esordio Lunchbox, mentre ha appena realizzato per Netflix Our souls at night, un’altra storia che va a indagare sentimenti e rimpianti in età avanzata.
È difficile incasellare questo film in uno specifico genere cinematografico: è fondamentalmente un dramma ma in cui non mancano momenti più leggeri, una riflessione sulla memoria che a un certo punto diventa quasi un thriller, con attesa rivelazione finale a sorpresa.
Senza svelare troppo, possiamo dire che si tratta di una storia sulla scoperta, o meglio la riscoperta, di alcuni lati della propria personalità, e su come le emozioni e i sentimenti si trasformino con l’avanzare degli anni, adagiandosi su una pigra placidità dall’aria rassicurante. Questo si collega al tema dei ricordi, che possono essere veritieri o ingannevoli, repressi oppure ritoccati, più o meno inconsciamente.
Senza dubbio temi affascinanti, forse proprio per questo difficili da comprimere e sfruttare al meglio in due ore di film: guardando i flashback, ad esempio, si ha la sensazione che le discussioni “filosofiche” fra il protagonista e i suoi amici al college, in particolare le riflessioni di Adrian (Joe Alwyn) avrebbero dovuto essere più approfondite. Anche il rapporto del protagonista adulto con l’ex moglie (Harriet Walter) e la figlia (Michelle Dockery, nota come Lady Mary ai fan di Downton Abbey, tra l’altro esplicitamente citato in una scena del film) avrebbero meritato forse più spazio in quanto personaggi interessanti.
Se tra passato e presente, variazioni non solo temporali ma anche a livello stilistico, voce narrante, riferimenti letterari, la narrazione diventa in parte discontinua, a catturare l’attenzione dello spettatore ci pensa Jim Broadbent: veterano di tanto cinema e tv inglese, che passa instancabile da un ruolo all’altro, qui regala al suo Tony ironia e malinconia, leggerezza e riflessione, in definitiva umanità, e interagisce perfettamente con il resto del cast.
L’altra metà della storia è un film da cui forse ciascuno potrà ricavare un messaggio diverso, riflettendo sui lati di sé che non conosceva.