'Io Capitano' è il film di Matteo Garrone presentato al Festival di Venezia e vincitore del Leone d'Argento: ecco la recensione
Presentato in anteprima all’80a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Io Capitano è l’ultimo lungometraggio realizzato da Matteo Garrone che è stato scelto per rappresentare l’Italia nella corsa alla cinquina dei Migliori Film Stranieri ai prossimi Premi Oscar. La pellicola a Venezia è stata accolta con enorme favore, non solo dalla critica, ma anche dalla giuria internazionale di Venezia 80. Io Capitano, infatti, ha vinto sia il Leone d’Argento alla Regia a Matteo Garrone, sia il Premio Marcello Mastroianni andato al giovane e pieno di talento Seydou Sarr, che interpreta il protagonista.
Matteo Garrone ha parlato del suo ultimo lungometraggio come di una storia che in un certo senso ribalta la narrativa degli sbarchi di immigrati. Se l’Italia è abituata “solo” a vedere le masse di disperati che popolano le nostre coste e che arrivano sulla terraferma dopo giorni e giorni passati in un mare ostile, senza nient’altro se non la propria speranza, Io Capitano trasporta lo spettatore proprio all’origine del viaggio. I protagonisti della storia sono Seydou (il già citato Seydou Sarr) e suo cugino Moussa (Moustapha Fall), due ragazzi del Senegal che lavorano di nascosto per ottenere i soldi necessari a intraprendere il viaggio verso le coste italiane. Aggirando il consiglio (e quasi l’ordine) di sua madre di non partire per non rischiare la vita, Seydou e Moussa partono alla volta di un viaggio che si basa sulle loro fantasie e che si scontrerà ben presto con una realtà fatta di violenze, soprusi e corruzione a ogni livello.
Vista la trama di Io Capitano sarebbe stato facile per Matteo Garrone fare della facile retorica o ricorrere ad un ancora più semplice sequela di ricatti emotivi, volti a costringere quasi il lettore a commuoversi, a provare dolore empatico per quello che viene mostrato sul grande schermo. Garrone, però, che è un professionista del suo settore e che conosce il suo lavoro, decide di non percorrere la strada più semplice e opta per una chiave di lettura inaspettata: il realismo magico. La storia di Seydou è una storia profondamente reale e terrena, una storia in cui si sente il caldo del deserto, i granelli di sabbia che entrano negli occhi o le labbra che bruciano per l’arsura. Una storia – tratta da storie vere di coloro che hanno affrontato il viaggio raccontato – che non lesina sulla ferocia, sulla brutalità dell’essere umano che si fa animale quando si può far forte su qualcuno che non ha niente. Non è un film che cerca via di fughe, che prova a nascondere l’orrore. Eppure, in mezzo a tutto questo realismo, a tutto ciò che avviene prima che le barche giungano sulle coste italiane, Garrone inserisce degli elementi di realismo magico, dove folklore, leggende e immaginazione cooperano a dare al film anche una dimensione quasi fiabesca. Creature che popolano i cieli e trasmettono messaggi, donne che volteggiano nell’aria, ormai libere dalla loro fatica, gentili padroni che liberano i propri “schiavi” dopo la realizzazione di una fontana quasi magica: ci sono lampi di luce in mezzo a questo viaggio, attimi in cui la realtà si sospende e il protagonista si trova a vivere esperienze quasi extrasensoriali che sono quella piccola scintilla che gli permette di non abbattersi, di non lasciarsi sconfiggere dalla realtà che gli sbatte contro, cancellando ogni sogno che aveva fatto al lato del banchetto di famiglia, in Senegal.
Come nella miglior tradizione picaresca che si rispetti, il viaggio di Seydou – che è il vero protagonista dell’intera vicenda, quel “capitano” che dà il titolo al film – è anche un viaggio interiore, un viaggio alla scoperta di se stesso. All’inizio del film, infatti, vediamo il protagonista come se fosse in balìa del cugino. Come un moderno e più affettuoso Lucignolo, è Moussa che spinge Seydou a intraprendere un vero e proprio viaggio della speranza. Ma, man mano che il film avanza, man mano che Seydou vede coi suoi occhi gli orrori del mondo e della povertà sfruttata, il ragazzo finisce col lasciare indietro le sue speranze, le sue sciocche illusioni basate sul niente e comincia a costruire se stesso proprio attraverso le scoperte che fa, le cicatrici che gli vengono imposte o le persone che, lungo il cammino, decidono di aiutarlo come possono, disperato in mezzo ai disperati. Con un respiro internazionale – in lingua originale il film è quasi interamente sottotitolo – Io capitano è un film che non somiglia a nulla e che rappresenta un tassello pressoché fondamentale nella narrativa cinematografica legata alle migrazioni. Un titolo del nostro cinema che dimostra che il cinema italiano è ben lungi dall’essere morto o pieno solo di film brutti e scadenti.
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