Il Colibrì, recensione del film d’apertura alla Festa del Cinema di Roma
'Il colibrì' è il film scelto come titolo d'apertura della 17a Festa del Cinema di Roma. Ma l'opera di Francesca Archibugi, tratta dal romanzo di Sandro Veronesi, non convince del tutto
di Erika Pomella / 14.10.2022 Voto: 5/10
Tratto dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega, Il colibrì è il film di Francesca Archibugi che è stato scelto come titolo d'apertura della 17a edizione della Festa del Cinema di Roma, che ha luogo nella cornice dell'Auditorium Parco della Musica dal 13 al 23 ottobre 2022. Un titolo molto atteso, che aveva già fatto il proprio debutto al Festival di Toronto e che ora fa tappa nella kermesse romana prima di debuttare ufficialmente in sala.
Il colibrì racconta la vita e la storia di Marco (un sempre credibile Pierfrancesco Favino), la cui esistenza è sferzata da tragedie continue, da sfide quotidiane e da personaggi che gli ruotano intorno come dei veri e propri satelliti. Dall'amore di tutta una vita (Berenice Bejo), a una moglie con disturbi mentali (Kasia Smutniak), passando per una figlia (Benedetta Porcaroli) amata e difesa con tutto il cuore. Sin dall'infanzia in casa dei genitori, fino alla terza età, la macchina da presa di Francesca Archibugi indaga e insiste su tutta un'esistenza, portando sul grande schermo il ritratto di un uomo buono, leale, sempre pronto a sacrificare se stesso per il benessere delle persone che ama. Una sorta di eroe quotidiano che non trova spazio in una contemporaneità corrotta, sleale, malata.
Nonostante l'attesa intorno al nuovo film della Archibugi, Il colibrì è un film che non riesce a convincere del tutto. Non basta la straordinaria interpretazione di Favino – che qui si offre al pubblico con un accento marcatamente toscano – né un ottimo cast di contorno a salvare una pellicola che pecca di eccessivi temi e di eccessivi ricatti emotivi che, nel voler per forza spingere lo spettatore a commuoversi finisce con l'infastidirlo. I colpi mancini che capitano a Marco smettono di essere delle semplici tragedie e si trasformano in una petulante prostituzione del dolore, come se fosse solo la sofferenza lo strumento adatto per raccontare una vita. Come se fossero solo i lutti, le assente e i sacrifici a rendere tridimensionale un personaggio. Va riconosciuto, però, che questo difetto era già largamente presente nel romanzo di partenza: anche nell'opera di Veronesi – e forse anche più di quanto accade sul grande schermo – tutta l'operazione narrativa sembra ruotare intorno alla capacità del protagonista di rimanere in piedi mentre contro di lui si affollano tragedie su tragedie. Un'insistenza che finisce col rendere grottesca l'intera storia, al punto che lo spettatore/lettore non può (e forse non vuole) entrare in empatia con quello che vede/legge, perché lo ritiene altamente improbabile.
Oltretutto, proprio perché il film insiste così smaccatamente sul dolore, si nota una certa freddezza nel racconto, una totale mancanza di coinvolgimento che porta l'insofferenza a unirsi col distacco. Di fatto, chi è seduto in poltrona riesce a notare la bravura e la partecipazione degli interpreti (eccezion fatta per un Nanni Moretti troppo macchinoso e artificiale per essere credibile); si può congratulare per l'eleganza della messa in scena e per la competente gestione dei vari piani temporali che compongono l'opera, caratterizzata da salti cronologici più o meno importanti. Ma l'esperienza spettatoriale rimane chiusa qui, in questa sorta di panoramica generale in cui si guarda senza vedere, in cui si assiste a uno spettacolo senza parteciparvi.