[Roma 2016] I am not a serial killer, la recensione
'I am not a serial killer' è un film dignitoso, ben interpretato, che purtroppo paga lo scotto di una parte centrale piuttosto lenta e dilatata e di un finale sì inaspettato, ma del tutto inadeguato per la strada narrativa percorsa dalla pellicola.
di Erika Pomella / 23.10.2016 Voto: 6/10
Presentato nella sezione autonoma di Alice nella Città, all'interno dell'undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, I am not a serial killer è una pellicola tratta dal primo volume di una saga letteraria – inedita in Italia – di Dan Wells, che oltre il già citato titolo include anche Mr. Monster, I don't want to kill you, The Devil's only friend e l'ultima uscita Over your dead body. A portare questa storia al cinema è il regista Billy O' Brien, che ne cura anche la sceneggiatura insieme a Christopher Hyde.
La storia è quella di John (Max Records) un ragazzino non proprio "normale": ha una vera e propria ossessione per i serial killer, passa i pomeriggi imbalsamando cadaveri nell'agenzia di pompe funebri della famiglia, e il resto del tempo lo trascorre o a pulire il giardino del suo vicino (Christopher Lloyd) o con il suo terapista (Karl Geary) che lo aiuta a gestire il suo disturbo. John, infatti, è un sociopatico e si autodetta delle regole che deve seguire per non perdere contatto con la realtà e, soprattutto, non dar sfogo alla parte di lui che vorrebbe uccidere. Sì, perché John è incapace di provare empatia e, allo stesso tempo, è costretto a tenere sotto controllo i suoi istinti violenti. La sua routine di regole e schemi mentali, però, viene meno quando nella sua cittadina cominciano ad aver luogo omicidi brutali, in cui un serial killer porta via gli organi alle proprie vittime.
Ad un primo sguardo I am not a serial killer si presenta come un film che punta molto al realismo: nonostante la storia raccontata non sia di certo delle più leggere, l'intento del regista sembra all'inizio quello di seguire lo sviluppo mentale di un ragazzo che, oltre a dover affrontare la sfida della crescita, è costretto anche a vedersela con la crescita di istinti violenti, a tratti omicidi. Il racconto, però, man mano che avanza lungo il suo percorso, perde questa visione privilegiata, trasformandosi in una sorta di gioco a guardia e ladri, tutt'altro che avvincente. La parte centrale della pellicola, infatti, risulta lenta e di certo troppo dilatata, così che l'attenzione dello spettatore finisca, ogni tanto, con lo scendere a picco. Ma il vero punto debole di una pellicola comunque dignitosa e comunque ben interpretata è di certo il finale inaspettato. Senza ovviamente spoilerare nulla, il punto debole di questo finale non è tanto (o comunque non solo) il finale in sé, ma il modo inaspettato in cui vi si è giunti. Non è tanto quello che ci viene raccontato come chiosa a disturbare, ma il modo in cui ci è stato raccontato. Non c'è stata, infatti, nessuna costruzione logica o linguistica che potesse condurre a quel punto e, oltretutto, dopo che il danno è stato fatto, allo spettatore non viene concessa neanche un'ombra di spiegazione. Il pubblico, così, si trova sì spiazzato, ma in senso negativo. Esce dalla sala con la sensazione di aver visto un film che non fosse sicuro della strada da voler intraprendere: un film dalla doppia anima che paga lo scotto proprio di questa sua natura ibrida, a metà strada tra troppe scelte narrative.