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Ghost Town Anthology, la recensione (Berlinale69)

Presentato in concorso alla Berlinale, Ghost Town Anthology racconta di un piccolo paese del Canada che deve fare i conti con i propri fantasmi del passato...e del presente.

In un piccolo paesino locato nelle terre sperdute del Canada orientale vivono 200 persone che, completamente isolate, trascorrono le giornate camminando per i boschi innevati o riposandosi nelle loro case. Una cosa però è certa, tutti si conoscono. Quando il giovane Simon muore in un incidente stradale l'intero villaggio appare scosso da questa perdita e tutti, a partire dal fratello, rimangono apparentemente sconvolti e increduli. Da quel momento, nelle case e tra gli alberi della foresta cominciano ad apparire delle strane sagome che terrorizzano gli abitanti del villaggio. In un ambiente così chiuso come quello del piccolo paesino canadese dove regna il silenzio e tutto sembra trascorrere lentamente non tutti riescono ad affrontare questa vita reclusa nell'immensità delle terre innevate e le uniche due soluzioni sono andarsene o porre fine alla propria vita. 

Ghost Town Anthology, presentato in concorso alla 69esima edizione della Berlinale, racconta le difficoltà che gli abitanti di un piccolo villaggio isolato incontrano nella loro psiche e nelle relazioni che si instaurano con i vicini. Ogni personaggio presentato dal regista Denis Coté mostra i suoi personali segreti che le altre persone sembrano comprendere ma che in realtà non conoscono fino in fondo. La giovane Adèle appare vivere in un mondo parallelo costruito come una sorta di barriera per proteggersi dall'esterno ma in realtà la ragazza nasconde una grande paura della solitudine che la porta persino ad avere difficoltà nel rapportarsi con i suoi coetanei. La madre di Simon, dopo la sua morte, si chiude in se stessa e, pur avendo un palese bisogno di un sostegno psicologico, è la sindaca a decidere per lei, anche quando si tratta di necessità personali. È così che, quando arriva una psichiatra "straniera" in soccorso, lei è la prima ad accoglierla comunicandole di non aver alcun bisogno di un aiuto di quel tipo ma è sempre lei che, dopo il funerale di Simon, affoga la sua preoccupazione nell'alcool. Coté raccoglie quindi diversi punti di vista inquadrando un paesaggio desolato e solitario che ognuno degli abitanti vive in modi completamente diversi. 

La scelta di utilizzare una pellicola 16mm rafforza l'idea del regista di avvicinare l'ambientazione al pubblico, di farlo, in qualche modo, sentire parte del suo vissuto e di far percepire quelle che potrebbero essere le sensazioni e i sentimenti dei protagonisti che si trovano confinati in un luogo tanto inospitale per la mente. 

I fantasmi arrivano sin dall'inizio del film, sono loro che accolgono l'anima di Simon nella loro cerchia. Ma queste entità non sono diverse dagli abitanti del villaggio, quello che fanno è ricordare e mostrare quello che sarà il loro futuro: nessuno riuscirà mai a lasciare veramente quel luogo, nemmeno dopo la morte. Denis Coté però non si limita a questo, nel suo modo di rappresentare questi fantasmi ci dice altro; fantasmi e persone viventi non sono poi tanto diversi. Il vagare incessante e l'osservare serrato di queste anime ricorda tanto i comportamenti dei paesani stessi che passano le giornate camminando per i boschi o osservando i loro conoscenti compiere azioni. 

Alla fine solo qualcuno se ne andrà, altri rimarranno vittime del tedio che soffoca il paese mentre altri ancora continueranno ad essere abitanti, spettatori e concittadini di questo sentore di morte che aleggia nel cielo di questa piccola ghost town.

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