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Recensione: Foxcatcher

Un impressionante Steve Carell in una cupa storia vera, tra sport e follia che serve da ispirazione al film Foxcatcher,

È una storia vera quella che serve da ispirazione al film Foxcatcher, che si basa su una serie di eventi accaduti fra il 1986 e il 1996. A dirigere il film è Bennett Miller, già autore del biopic Truman Capote-A sangue freddo e che si era avventurato nel mondo dello sport con L'arte di vincere-Moneyball; grazie a Foxcatcher, invece, Miller ha vinto la Palma d'oro per la regia al Festival di Cannes, dove il film è stato presentato nel 2014.

Mark Schultz (Channing Tatum) è un campione olimpico di wrestling, così come suo fratello maggiore Dave (Mark Ruffalo), atleta oltre che coach nella stessa disciplina. Un giorno Mark viene contattato da John E. du Pont (Steve Carell), che lo invita a un incontro nella sua tenuta in Pennsylvania. Du Pont, erede delle fortune di una ricca famiglia attiva nel mondo dell'equitazione, è un milionario ornitologo, filatelico e appassionato di sport, che intende formare una squadra di wrestling, il team Foxcatcher appunto, da portare alle Olimpiadi: per questo vuole invitare Mark e Dave Schultz a vivere e ad allenarsi nella sua tenuta, offrendo loro un lauto compenso. Mentre Mark non esita ad accettare la vantaggiosa offerta, Dave rifiuta di trasferire la sua famiglia e non parte con il fratello. Mark si trasferisce in uno chalet nella tenuta du Pont e si allena insieme al team, ottenendo buoni risultati nelle competizioni, e sviluppando una sorta di amicizia con John, che si propone come suo mentore e una sorta di figura paterna. Quando però il magnate inizierà Mark alla dipendenza da cocaina, i rapporti inizieranno a guastarsi, e la situazione non migliorerà nemmeno con l'intervento di Dave…

Indubbiamente la vicenda alla base di Foxcatcher, tra l'altro raccontate recentemente in un libro autobiografico dallo stesso Mark Schultz, è affascinante e intrigante, una pagina cupa nella storia del mondo sportivo statunitense e non solo. La storia coniuga infatti diversi elementi che si intrecciano fra di loro: i rapporti familiari difficili, come quello fra i due fratelli Schultz ma anche fra John e sua madre (piccolo ruolo per la veterana Vanessa Redgrave); lo sport come riscatto ma anche come maniera di esercitare il potere; il dominio fisico a cui rimanda la lotta, e quello psicologico che si esercita, a turno, tra i vari protagonisti.

Il regista Bennett Miller sceglie uno stile crudo e scarno, fatto anche di lunghi silenzi, sottintesi ed ellissi temporali; preferisce illustrare che spiegare, lasciando presagire il senso di tragedia annunciata. Se in certi momenti sembra non addentrarsi troppo a fondo nella storia e nella complessità di alcune situazioni, in questo modo però tratta il tema degli squilibri mentali (du Pont venne poi dichiarato affetto da schizofrenia paranoide) senza aggiungere enfasi o retorica.

A fare il resto è il gioco di squadra degli attori: Channing Tatum ha il giusto physique du role, anche se il suo personaggio viene un po' messo da parte nella seconda metà del film; Mark Ruffalo conferma invece il suo poliedrico talento, e poi troviamo un sorprendente e quasi irriconoscibile Steve Carell, che arriva con questa parte alla svolta drammatica, guadagnandosi così la sua prima candidatura all'Oscar.

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