Figli dell'intelligenza artificiale - Poster wide
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Figli dell’intelligenza artificiale, recensione del film con Emilia Clarke e Chiwetel Ejiofor


In un futuro non troppo lontano, Rachel e Alvy sono una coppia intenzionata a mettere su famiglia ricorrendo a una forma di gravidanza non tradizionale: cosa comporterà esattamente quest'esperienza per loro, e in che modo la tecnologia può influenzare la società e i rapporti umani.
Voto: 6/10

Dopo la presentazione al Sundance Film Festival 2023, è disponibile da noi in video on demand il film Figli dell’intelligenza artificiale; ci troviamo a New York in un prossimo futuro, dove ovviamente è tutto ipertecnologizzato: le vite delle persone sono meticolosamente regolate e sorvegliate dalle intelligenze artificiali che fanno quasi da assistenti personali ai singoli individui, monitorandone l’alimentazione, il modo di vestirsi, l’esercizio fisico e svolgendo anche, all’occasione, la funzione di psicoterapeuta. In questa società dove (così si dice, ufficialmente) tutto è stato ottimizzato per ottenere il massimo potenziale da ciascuna situazione, è possibile anche avere un figlio senza dover affrontare una gravidanza: ci sono dei centri specializzati grazie ai quali è possibile impiantare e in seguito far crescere gli embrioni dentro un cosiddetto “guscio” (da cui il titolo originale The pod generation) realizzato appositamente, che funge da sostituto del ventre materno per tutta la durata della gestazione.

È a questo metodo che pensa di ricorrere anche la protagonista Rachel (Emilia Clarke), giovane donna in carriera, ma è un po’ titubante nel parlarne al compagno Alvy (Chiwetel Ejiofor), che di professione fa il botanico ed è quindi dell’idea di lasciar fare il più possibile alla natura, e preferirebbe ovviamente un figlio concepito e partorito in maniera più tradizionale. La coppia inizia così a imbarcarsi in un percorso denso di dubbi, ostacoli e sorprese, attraverso il quale si troveranno anche a riflettere sulla loro unione e sulla famiglia che vogliono costruire insieme.

Uno scenario distopico per una storia che riflette su vantaggi e pericoli del progresso tecnologico

Figli dell’intelligenza artificiale, scritto e diretto dalla francese Sophie Barthes (il cui precedente film era un adattamento di Madame Bovary con Mia Wasikowska, ma aveva già mescolato realtà e fantascienza nel suo debutto Cold souls con Paul Giamatti, inedito da noi), è dunque una nuova variazione su un tema sempre più frequentato da film e serie tv, in cui si presenta uno scenario futuristico ma non troppo, facendo leva su un immaginario che allo spettatore appare ancora come fantascienza, forse irrealizzabile, ma che in qualche modo non sembra poi troppo distante da noi, dal nostro presente sempre più ricco di possibilità, in cui il panorama della tecnologia sembra tirare ogni giorno fuori dal cappello nuove innovazioni che promettono di semplificarci la vita.

In questo caso poi il tema è quanto mai “caldo”, se pensiamo all’incessante dibattito su pratiche come la fecondazione assistita e l’utero in affitto, che contano su un buon numero tanto di sostenitori quanto di detrattori; l’avere un figlio facendo ricorso alla scienza è, in fondo, lo spunto di partenza che sta alla base del film, con la differenza che, in questo caso, a portare a termine la gravidanza non è una persona che faccia da madre surrogata, ma si può parlare semmai più di una sorta di incubatrice; a questo però si associano e si sommano, invece, sentimenti e sensazioni molto umane, portando così all’apoteosi l’eterna lotta fra uomo e macchina, fra natura e tecnologia.

Il film quindi è stato anche definito una satira sociale, per il modo in cui mette in luce, con ironia a volte tagliente, alcuni aspetti bizzarri, quasi paradossali e spesso contraddittori, con cui i personaggi si trovano ad avere a che fare: c’è innanzitutto la raffigurazione di una società in cui l’obiettivo dichiarato è quello di migliorare la qualità di vita degli esseri umani, ma in cui questo si ottiene di fatto attraverso la de-umanizzazione della maggior parte delle esperienze, riducendo o quasi azzerando ogni contatto con ciò che è naturale, vivo, vero, anche imperfetto, che pulsa e che respira e che sa di vita vissuta, per cui le persone sanno che, quando hanno bisogno del contatto con l’ambiente, lo ottengono inalando da una mascherina d’ossigeno, mentre hanno quasi paura a mangiare un frutto fresco colto direttamente da un albero.

Troviamo poi una denuncia dello strapotere delle mega corporations come la fittizia Pegazus citata nel film, e di conseguenza un senso di diffidenza nei confronti di quegli ambienti che, almeno all’apparenza, propongono una soluzione a ogni problema puntando ad un benessere e a una perfezione estremamente attenti a ogni esigenza, ma che in realtà sembrano sempre nascondere un lato oscuro sotto la superficie: questo si esprime al meglio nella raffigurazione della direttrice del centro per la maternità, interpretata da Rosalie Craig, che dietro i modi soavi e rassicuranti cela sempre condiscendenza e rigidità a volte frettolose, pronta a nascondere velocemente sotto il tappeto qualsiasi potenziale fonte di guai.

Poiché si sa che, in fondo, l’attesa di un figlio è comunque un momento molto particolare e delicato per una coppia, fonte di un turbinio di sconvolgimenti emotivi che possono anche andare a modificarne gli equilibri, e a cui ovviamente ciascuno reagisce a suo modo, il film riflette anche questo aspetto, seppure attraverso il filtro delle circostanze, mostrando alternativamente premure, dubbi, preoccupazioni e anche insofferenza sia da parte di Rachel che di Alvy mentre si preparano a diventare genitori.

Una storia con tanti spunti interessanti, non tutti sfruttati al massimo

C’è tanta carne al fuoco in questa storia, dunque, perché ci sono anche altri dettagli che restano un po’ più in secondo piano, ma suggeriscono altri spunti di riflessione, e che sarebbe stato altrettanto interessante approfondire: ad esempio le implicazioni etiche e morali legate a questo tipo di maternità, presentata come un mezzo per permettere finalmente alle donne di non essere più schiave dei problemi legati alla gravidanza, e quindi per ristabilire un equilibrio paritario con gli uomini ma che in realtà, ci viene detto, non è gradita dalle femministe, che protestano con striscioni e manifestazioni di piazza. C’è poi la controparte rappresentata dalla collega della protagonista (Vinette Robinson) e da suo marito, anche loro futuri genitori, che sembrano fornire inizialmente un’altra angolazione sul tema ma che poi non viene indagata, così come non sappiamo mai veramente molto sul lavoro di Rachel e in che cosa consista esattamente; vediamo che la sua azienda, così come gli altri ambienti raffigurati nel film, possiedono ovviamente quel look, spesso giocato sui toni freddi, creato apposta per dare l’idea di un mondo tecnologicamente avanzato, dove tutto è pulito e ordinato, quasi sterilizzato.

Figli dell’intelligenza artificiale è, insomma, un esempio di sci-fi intellettuale, un film che vuole riflettere sul futuro che (forse) ci aspetta, coniugando fantascienza e sentimento, per mostrare in che modo tecnologia e progresso possano influire sui sentimenti e sui rapporti umani: può portare alla mente un episodio di Black Mirror, ma è stato avanzato anche il paragone con Lei (2013) di Spike Jonze; in questo caso, però, il film non trova sempre un perfetto equilibrio narrativo, andando a miscelare ironia e leggerezza (anche nella scelta di due protagonisti come Emilia Clarke e Chiwetel Ejiofor, che mantengono per tutta la durata un potenziale comico sottotraccia) al dramma, alla fantascienza con una punta di thriller, e quello che manca forse è un pizzico di emotività in più, mentre il tono rimane un po’ trattenuto e cauto, restando così sospeso, come la storia che racconta, tra una forma più tradizionale e rassicurante, e idee più creative e non ancora completamente formate.

In conclusione, Figli dell’intelligenza artificiale è un film dalle premesse interessanti e certamente in grado di scatenare riflessioni, con un esempio di fantascienza low-cost e per certi versi vecchio stampo, non completamente innovativo ma al passo con i tempi e dalle tematiche attuali.

Valutazione di Matilde Capozio: 6 su 10
Figli dell’intelligenza artificiale
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