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Enea, la recensione del secondo lungometraggio di Pietro Castellitto

'Enea' è l'opera seconda di Pietro Castellitto, un'opera che però non riesce a convincere del tutto e che pecca di un certo manierismo

Presentato in anteprima mondiale all’80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di VeneziaEnea è il secondo lungometraggio diretto da Pietro Castellitto, dopo I predatori, film che aveva avuto una buona accoglienza da parte di critica e pubblico. Va da sé, dunque, che c’erano molte aspettative riguardo quest’opera seconda, per di più dopo essere passata nella Selezione Ufficiale di uno dei festival cinematografici più antichi del mondo.

La storia di Enea

Enea (Pietro Castellitto) è un ragazzo della Roma bene, figlio di un uomo malinconico (Sergio Castellitto) e di una madre (Chiara Noschese) che dietro il suo impegno nella carriera non riesce del tutto a nascondere la disillusione per un amore che non ha mai smesso di provare e che pure è diverso dal sogno romantico che aveva conservato. Il fratello minore, Brenno (Cesare Castellitto) ha invece problemi a scuola, soprattutto quando si trova a dover difendere la reputazione del fratello maggiore. Tuttavia è con Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio) che Enea ha un rapporto privilegiato: mentre il primo cerca di costruire un impero che sembra ricalcare ciò che lo spettatore medio osserva oggi nei prodotti per la serialità, Valentino ha appena ottenuto il brevetto di pilota e cerca nella famiglia dell’amico quelle radici che lui sente smarrite, a causa di una condizione familiare tragica. In una Roma tentacolare e caotica, che non prevede punti di riferimenti né svolte cariche di occasioni, Enea e Valentino si trascinano in avventure spesso più grandi di loro, che sembrano avere l’unico scopo di farli sentire vive in un mondo che sta pian piano cadendo a pezzi. Nel cast del film anche Benedetta Porcaroli nei panni della bella Eva e un “rinnovato” Matteo Branciamore, che si è lasciato I Cesaroni alle spalle.

Una seconda opera piena di manierismo

Non c’è dubbio che, per un regista, deve essere molto più difficile realizzare la tanto decantata opera seconda rispetto al film d’esordio. Quando sei un esordiente, seppure figlio d’arte, sai che non hai nulla da perdere, sai di avere una certa libertà perché nessuno si aspetta niente da te. Anzi, proprio perché sei un figlio d’arte e quindi, nell’immaginario culturale italiano, un raccomandato senza talento, tutti si aspettano l’errore, lo sbaglio. Le aspettative sono così basse che un regista può davvero assaggiare il sapore della libertà e raccontare una storia per quella che è nella sua immaginazione. Con la seconda opera, tutto cambia. Hai già dimostrato di saper dirigere un film, entrano in gioco le aspettative e il peso di voler dimostrare qualcosa. Ed è questo l’errore in cui è caduto Pietro Castellitto nel suo secondo lungometraggio da regista.

Se I predatori era un’opera piacevole e a suo modo sorprendente, Enea pecca di un così forte manierismo, che entrare nella storia diventa difficile se non proprio impossibile, e invece di seguire le vicende di questo ragazzo romano con gli auricolari sempre nelle orecchie, lo spettatore si trova a guardare l’orologio per capire quanto manca alla fine di questo supplizio. Enea è un film quasi interamente senz’anima, che vuole raccontare tanto e finisce col raccontare niente, che regala scene assolutamente gratuite realizzate con riprese acrobatiche o pseudo-artistiche senza che ce ne sia un effettivo bisogno, come la lenta carrellata iniziale sul volto di Sergio Castellitto riflesso sulla scrivania. È evidente che Pietro Castellitto volesse raccontare di una generazione senza punti di riferimento, che annaspa alla ricerca di un modo qualsiasi per restare a galla ed è evidente che anche la sua regia volesse dare questo messaggio: niente è come dovrebbe essere, niente funziona nel modo canonico. Ed è uno scopo nobile ed interessante, ma la resa fa avvertire troppo la presenza del regista, sembra di sentire quasi la voce di Castellitto che chiede al pubblico di essere visto, di essere riconosciuto, di veder soprattutto riconosciuto il suo diritto ad essere di nuovo dietro la macchina da presa. Tutto è troppo artificioso e artificiale.

Il lato grottesco dell’opera – che è veramente senza capo ne coda – non è sindacabile, perché è quest’aurea che presumibilmente Castellitto voleva dare alla sua storia. Ancora una volta, un giro forsennato su una giostra che ormai non funziona più e che quindi non può rispondere agli stilemi del cinema classico. Non c’è storia, in questo film. Ci sono episodi che si susseguono, alcuni collegati e altri no, come a dimostrazione che la vita del protagonista è essa stessa a pezzi, incapace di essere messa in ordine. E sebbene vada applaudito il coraggio di un giovane regista che non vuole appartenere a un cinema vecchio e stantio e che si getta all’avventura con impavida sicurezza, va anche riconosciuto la debolezza di un film che si dimentica nel giro di qualche giorno o di cui non rimane altro se non le scene più assurde (come quella del cuoco e del salmone) o quelle più belle. Perché non è tutto da buttare, in Enea. Ci sono alcune sequenze davvero da togliere il fiato e quando Pietro Castellitto si libera dalla pressione del secondo film, si ha la sensazione che tutto torni in ordine, come se il pubblico potesse vedere come sarebbe andato il film se il regista si fosse sentito meno in dovere di dimostrare il proprio lavoro. E il personaggio di Valentino è davvero scritto bene e recitato ancora meglio: è indubbio che sia lui il vero eroe dell’intera operazione. Lui che, da solo, salva un film altrimenti difficile da salvare.

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