Attraverso l'occhio di una macchina da presa inesorabilmente fissa Anderson mostra 3 riflessioni sulla morte e una serie di situazioni e personaggi che si compenetrano.
In Italia quasi totalmente sconosciuto, se non fosse per il buon Enrico Ghezzi che programma frequentemente i suoi lungometraggi nello storico Fuori Orario (l'etichetta "prodotto di nicchia" è purtroppo d'obbligo), Roy Anderson approda al lido con En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence) capitolo conclusivo della The living trilogy che include i precedenti Songs from the second floor e You, the living. Da molti considerato il successore di Ingmar Bergman, Anderson porta al Festival del cinema di Venezia 2014 un'opera originale e di non semplice fruizione combinando la teatrale pittoricità della messa in scena all'assurdità di una trama che destabilizza per le continue variazioni delle tonalità emotive che sono una commistione tragicomica di situazioni al limite fra reale e irreale.
Due venditori ambulanti, caratterialmente opposti e che vivono in uno squallido hotel, cercano di piazzare sul mercato i loro articoli per feste e travestimenti. Una ballerina di flamenco prova a sedurre un suo allievo. Un ex capitano di un traghetto senza alcuna esperienza inizia a fare il parrucchiere ma perde il suo unico cliente. Un ufficiale attende fuori da un locale un incontro misterioso e una donna delle pulizie parla al telefono inginocchiata sul pavimento. Il pub di Lotta Zoppa, un cliente ultrasessantenne che beve grappa da anni e una digressione temporale nel 1943. Poi un esercito del XVIII sec. che marcia verso Mosca e Carlo XII di Svezia, un amministratore delegato disperato, una scienziata che chiacchiera al cellulare mentre ad una scimmia viene praticato l'elettroshock e infine un enorme organo di metallo in cui vengono arrostiti prigionieri africani.
Attraverso l'occhio di una macchina da presa inesorabilmente fissa Anderson mostra 3 riflessioni sulla morte e una serie di situazioni e personaggi che si compenetrano. Scene come tableau vivant che rivelano una profonda attenzione per i dettagli e per tutto ciò che in esse si muove traendo ispirazione dalle visioni della Nuova Oggettività tedesca, da Edward Hopper, Otto Dix, Georg Scholze e Brugel. Una sequenza di quadri animati in cui si muove un'(dis)umanità grottesca e senza speranza destinata all'apocalisse e invitata, apparentemente senza successo, a riflettere sul concetto di "lebenslust" e cioè sulla passione per la vita e sull'esistenza. In un'atmosfera di totale apatia emotiva i personaggi si informano al telefono sullo stato di salute di un qualcuno indefinito, la morte non fa nessuno effetto (anzi permette di bere gratis la birra del defunto) così come pseudo molestie sessuali o la violenza sugli animali. Solo il sogno finale in cui un enorme organo di rame emette una musica meravigliosa proveniente in realtà dalle urla degli uomini che bruciano al suo interno sembra esprimere un giudizio sull'atrocità dell'essere umano. Con un surreale iperrealismo tutto personale Anderson dichiara la sua visione del mondo spingendo al limite una tragicità che per questo diventa comica e quindi quasi illogica. Una delle pellicole più interessanti di questo festival.
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