1981: indagine a New York, la recensione
'1981: indagine a New York' è una pellicola incentrata sulla piccola figura di un uomo che si scontra con un sistema marcio e che cerca di fare qualsiasi cosa per restare a galla; funereo, scuro e a tratti cupo, il film di J.C. Chandor colpisce soprattutto per la bravura degli interpreti.
di Erika Pomella / 18.02.2016 Voto: 8/10
Abel Morales (Oscar Isaac) è un immigrato di origini ispaniche che vive poco fuori New York, che si è costruito la propria vita, ponendo le basi della sua esistenza sull'idea dell'American dream, quella convinzione secondo cui ognuno, entro i confini americani, ha la possibilità di conoscere felicità e successo, a prescindere dal punto di origine o dalla storia che viene abbandonata alle spalle, in qualche paese fuori dai confini decretati da Ellis Island. Abel è un uomo di successo, che lavora nel settore del gasolio, una vera e propria miniera d'oro che cattura le attenzioni dei federali, che "congelano" gli affari di questi "magnati" per avviare un'indagine in larga scala. In questo contesto, pieno di rivalità e pericoli, Abel può contare sulla moglie Anna (Jessica Chastain), figlia di un malavitoso locale, che lo aiuterà, a suo modo, a fare i conti con un mondo che mette in mostra tutte le proprie crepe.
La prima cosa da sottolinea su 1981: Indagine a New York è lo scempio che è stato fatto del titolo originale, vale a dire A most Violent Year; e se è vero che il cinema deve parlare soprattutto tramite le immagini che lo compongono, è anche vero che venir meno ad una scelta narrativa tanto importante come quella legata al titolo rischia di snaturare la percezione – almeno quella iniziale – di qualsiasi film. Perché la scelta italiana sembra voler spingere l'attenzione dello spettatore sull'indagine federale che arriva come una bomba a cambiare il modo di percepire la vita di Abel. Ma nelle intenzioni del regista, l'attenzione deve essere posta invece proprio su Abel, sulla violenza che subisce e che perpetua, su quel senso costante di pericolo che sembra aleggiare in ogni inquadratura, come se appena oltre il quadro ci fosse sempre una minaccia ad incombere, pronta ad inglobare e a divorare qualsiasi cosa.
Il regista J.C. Chandor cerca una visione d'insieme non attraverso il contesto che costruisce con le sue inquadrature, usando quindi l'indagine come un mero strumento per arrivare al nocciolo della questione. Lui insegue il particolare, l'atomica presenza di un solo individuo che, attraverso la sua storia, offre allo spettatore un quadro più grande. J.C. Chandor è un autore che insegue il dettaglio, che insegue il racconto orizzontale e individuale di una figura, piuttosto che il racconto ad ampio respiro che il titolo italiano sembra suggerire. In A Most Violent Year non c'è niente (o c'è comunque poco) di quello che la parola indagine potrebbe richiamare allo mente dello spettatore. C'è invece la violenza, una guerra che è fatta di sotterfugi e trucchi infami; c'è la presa di coscienza della struttura quasi marcia che regola la perpetuazione di quel sogno americano che sembra essere fatto solo di rose e diamanti, ma che invece affonda in radici ormai marce e logore.
Dopo aver diretto All is Lost, in cui si concentrava essenzialmente su uno sconosciuto che doveva combattere contro la forza della natura per sopravvivere, senza quasi proferire verbo, ora J.C. Chandor punta il suo obiettivo sulla minuscola figura di un immigrato ispanico, uno dei tanti puntini che formano il volto poliglotta e policulturale di cui l'America si fa un vanto. E su tutto aleggia una continua sensazione di morte, aiutata anche dall'uso delle luci e della fotografia, che trasmette al pubblico un funereo senso di ineluttabilità, che si rispecchia sui volti dei meravigliosi interpreti.