Michel Hazanavicius, intervista al regista di ‘The Artist’
Vi proponiamo l’intervista completa realizzata a Michel Hazanavicius, il regista del film “The Artist” con Jean Dujardin e Bérénice Béjo, che uscirà il prossimo 9 dicembre, distribuito da BIM. Qual era il suo desiderio inizialmente? Fare un film muto, fare un film in bianco e nero o tutti e due? All’inizio, sette – otto anni […]
di Redazione / 23.11.2011
Vi proponiamo l’intervista completa realizzata a Michel Hazanavicius, il regista del film “The Artist” con Jean Dujardin e Bérénice Béjo, che uscirà il prossimo 9 dicembre, distribuito da BIM.
Qual era il suo desiderio inizialmente? Fare un film muto, fare un film in bianco e nero o tutti e due?
All’inizio, sette – otto anni fa, coltivavo la fantasia di realizzare un film muto. Probabilmente perché i grandi cineasti leggendari che ammiro di più vengono tutti dal cinema muto: Hitchcock, Lang, Ford, Lubitsch, Murnau, il Billy Wilder sceneggiatore… Ma soprattutto perché una scelta di questo genere impone a un regista di affrontare le proprie responsabilità e di adottare un modo molto particolare di raccontare una storia. Non è più compito dello sceneggiatore o degli attori raccontare la storia: spetta solo al regista farlo. È un tipo di cinema dove tutto passa attraverso le immagini, attraverso l’organizzazione dei segni che un regista trasmette agli spettatori. E poi è un cinema molto emozionale e sensoriale: il fatto di non passare per un testo ti riporta a una modalità di racconto estremamente essenziale che funziona solo sulle sensazioni che sei in grado di creare. È un lavoro appassionante. Mi sembrava una sfida magnifica e sentivo che se fossi riuscito a portarla a termine, sarebbe stato molto gratificante. Dico che era una fantasia più che un desiderio perché ogni volta che ne parlavo suscitavo solo reazioni divertite e non venivo mai preso davvero sul serio. In seguito, il successo dei due film OSS 117 ha fatto sì che la medesima frase “vorrei fare un film muto” non fosse più recepita allo stesso modo. E poi, soprattutto, Thomas Langmann è un produttore con orecchie diverse dagli altri e ha non solo ascoltato con interesse la mia idea, ma l’ha anche presa sul serio. Ho osservato i suoi occhi mentre gli parlavo e ho capito che ci credeva. È merito suo se il film è diventato possibile, se ha cessato di essere una fantasia ed è diventato un progetto. Ho potuto mettermi al lavoro. Gli ho detto che mi sarei messo a cercare una storia e che appena ne avessi trovata una che mi sembrava funzionare, sarei tornato a trovarlo…
In che momento è passato dalla voglia di fare un film muto alla voglia di fare un film muto in bianco e nero che parla del cinema?
Quando ho iniziato a riflettere su come sarebbe stato questo film muto, ho capito di avere due possibilità. O fare un film di puro divertimento, interamente ludico, quasi gratuito, un film di spionaggio nello stile di L’INAFFERRABILE di Fritz Lang, che secondo me è il film che ha suggerito a Hergé l’idea di Tintin. O fare un film su temi meno leggeri, probabilmente più difficile da realizzare, ma questa alternativa mi attirava quasi di più perché mi permetteva di allontanarmi completamente dai due OSS 117, un passo necessario visto che per questo film muto avevo voglia di lavorare di nuovo con Jean ma non volevo fargli rifare le stesse cose. Non volevo che il progetto venisse percepito come un capriccio o una trovata e ho quindi cercato di immaginare una storia che giustificasse in qualche modo il formato. Jean-Claude Grumberg, sceneggiatore e drammaturgo, amico dei miei genitori, mi aveva raccontato che un giorno aveva proposto a un produttore la storia di un attore del cinema muto spazzato via dall’avvento del parlato e il produttore gli aveva risposto: “Fantastico! Ma gli anni ’20 costano troppo, non potresti ambientare la storia negli anni ’50?”! Mi sono ricordato di quell’episodio e ho iniziato a lavorare in quella direzione e a ragionare sull’arrivo del cinema parlato. Non faccio film per riprodurre la realtà, non sono un cineasta naturalista. Mi piace creare uno spettacolo e che la gente provi piacere nel goderselo, consapevole che si tratta proprio di intrattenimento. Mi interessa la stilizzazione della realtà, la possibilità di giocare con i codici. È così che ha preso forma a poco a poco questa piccola idea di un film ambientato nella Hollywood di fine anni ’20 e inizio anni ’30 e che quindi sarebbe stato muto e in bianco e nero. In realtà, l’ho scritto molto velocemente, in quattro mesi. Non credo di aver mai scritto una sceneggiatura tanto in fretta. Il mio punto di partenza, legato al mio desiderio di lavorare di nuovo con Jean (Dujardin) e Bérénice (Béjo), è stato un attore del muto che non vuole sentire parlare… del parlato. Ho lavorato molto attorno a questo personaggio, ma appena mi è venuta in mente l’idea della giovane stellina e dei destini incrociati tutti gli elementi hanno iniziato ad incastrarsi e ad avere un senso, compresi i temi, l’orgoglio, la celebrità, la vanità. Una visione dell’amore molto all’antica, molto pura, anche sotto l’aspetto del formato. In effetti, i film muti che a mio giudizio sono invecchiati meglio, che hanno retto meglio alla prova del tempo, e non lo dico perché voglio confrontarli con il mio film, sono i melodrammi. È un genere che aderisce perfettamente al formato: storie d’amore molto semplici che sono grandi film, addirittura capolavori. Del resto, è proprio questo che spinge la gente a rivedere quei film. In ogni caso, a me hanno fatto venire la voglia di partire in quella direzione, dove il tono è più leggero, più ottimista, più gioioso, nonostante tutto…
Un film muto lo si scrive come un film parlato?
Sì e no. Sì, perché non ho modificato il mio modo di lavorare. La sola differenza è che, arrivato a un certo punto, contrariamente a quanto faccio di solito, non ho aggiunto i dialoghi. No, perché durante la scrittura non ho smesso di pormi delle domande squisitamente registiche: come faccio a raccontare questa storia sapendo che non posso mettere cartelli ogni venti secondi? Se ci sono troppi sviluppi, se la trama si amplia troppo, se ci sono troppi personaggi, se l’intreccio è troppo complesso, sul piano visivo non ne vieni fuori. È stato questo l’aspetto più complicato. Ho quindi visto e rivisto numerosi film muti per cercare di assimilare le regole del formato e comprendere la sfida che dovevo affrontare. Ben presto mi sono reso conto che non appena una storia diventa poco chiara, il ritmo si perde. È davvero un formato che non perdona, soprattutto oggi. All’epoca gli spettatori non avevano molti riferimenti, accoglievano i film che venivano loro proposti, ma oggi le abitudini sono diverse, i codici sono cambiati. L’aspetto più complicato è stato dunque definire il perimetro di gioco, dopo di che il resto è stato abbastanza semplice. L’altro punto non proprio facile è stato continuare a ripeterci che il progetto valeva la pena, che poteva essere portato a termine. È un film davvero contro corrente, perfino anacronistico. Abbiamo lavorato nel periodo della follia per Avatar, in piena esplosione 3D. Avevo la sensazione di essere alla guida di una 2CV circondato da auto di Formula 1 che mi sfrecciavano accanto a tutta velocità!
Questo non ha reso il progetto ancora più eccitante?
Sì, ma su un arco di tempo lungo, su un anno e mezzo, è impossibile sfuggire ai momenti di dubbio e non mettersi mai in discussione. Fortunatamente, la maggior parte delle volte è prevalsa l’eccitazione di fare qualcosa di speciale, di andare contro corrente e di vedere piano piano che il film è diventato un’ipotesi, poi una possibilità, poi una realtà, e gli sguardi da divertiti si sono trasformati in curiosi.
Quali sono i film che hanno maggiormente nutrito il suo immaginario e il suo lavoro durante la scrittura di THE ARTIST?
Ce ne sono stati molti… I film di Murnau e soprattutto Aurora, che non a casa è stato a lungo considerato il più bel film della storia del cinema, e Il Nostro Pane Quotidiano che, personalmente, tendo a prediligere. I film di Frank Borzage che sono un po’ nello stesso solco, anche se sono invecchiati di più. Murnau è atemporale, persino moderno. Peraltro, sia Borzage sia John Ford erano stati incoraggiati dal loro produttore William Fox, il fondatore della Fox, ad andare a vedere lavorare Murnau che aveva fatto venire in America perché era considerato “il miglior regista del mondo”. Dopo quell’esperienza, Ford realizzò un film magnifico, L’ultima Gioia, che assomiglia davvero a un film di Murnau, come se fosse realmente la risposta di un regista a un altro regista. È molto toccante. All’inizio, ho guardato un po’ di tutto, i tedeschi, i russi, gli americani, gli inglesi, i francesi, ma in fin dei conti è stato soprattutto il cinema muto americano a nutrirmi di più, perché l’ho sentito più affine e perché è stato quello che ha imposto subito una certa realtà, una certa prossimità, nei personaggi e nella storia. La Follia di King Vidor ne è un esempio molto commovente, come lo sono i film di Chaplin. Ma Chaplin è talmente al di sopra di tutti che non mi sono fidato, perché credo che tutto quello che è vero per lui è vero soltanto per lui. La sua opera è totalmente unica. E poi ci sono anche il film di Von Stroheim. Uno dei miei film preferiti è di Tod Browning, Lo Sconosciuto, con Lon Chaney. Ci sono anche dei Fritz Lang assolutamente incredibili. Anche se non hanno nulla a che vedere con il film che ho fatto io, mi hanno arricchito moltissimo. Del resto sono proprio questi film, i Murnau, i Borzage, La Follia, ecc. che ho mostrato agli attori, alla troupe, più come riferimenti che come modelli ovviamente.
Si è anche documentato sulla Hollywood degli anni ’20 e ’30?
Enormemente. Ho letto molti libri, molte biografie di attori e registi, ma non solo. La documentazione è molto importante, non per essere irreprensibili sotto il profilo storico o per essere realisti, visto che non è affatto questo il mio intento, ma perché costituisce un trampolino verso l’immaginario, le fondamenta necessarie per costruire una casa.
Avevo bisogno di documentarmi per alimentare la storia, il contesto e i personaggi. In The Artist ci sono quindi echi di Douglas Fairbanks, Gloria Swanson, Joan Crawford e anche echi lontani della storia di Greta Garbo con John Gilbert. Ne avevo bisogno anche per sapere di cosa parlavo, per riuscire a rispondere a tutte domande che di sicuro mi avrebbero rivolto durante la preparazione e le riprese. Quando sei solo davanti al tuo computer, è quasi semplice, ma quando ti trovi davanti a 300 persone che ti fanno una serie di domande, devi sapere di cosa stai parlando. Anche gli scenografi, i costumisti, gli accessoristi, ecc. si documentano e ti interrogano. Più ti documenti, più sei in grado di giocare con il materiale.
I film OSS 117 sono chiaramente dei pastiche, mentre THE ARTIST, malgrado ci siano degli ammiccamenti, in particolare riguardo a tutto quello che ruota attorno alla parola e al silenzio, è essenzialmente un’autentica storia d’amore, bella e commovente… È stato facile trovare il registro del film?
In effetti non si tratta di un pastiche, tranne quando vediamo i film muti di George Valentin, che tuttavia ho deciso di limitare. Non volevo assolutamente fare un film ironico, una parodia, come gli OSS 117, se non altro perché pensavo che avremmo esaurito il fiato piuttosto in fretta. Eppure faccio fatica a non considerare questo film nel segno della continuità del mio lavoro. Certo, è diverso per il tipo di storia che racconta, tanto più che non ho intenzione di fare dei pastiche per tutta la vita, né di essere sempre quello che fa ridere a tavola. Ma si tratta comunque di un modo di esplorare il linguaggio cinematografico e di giocare con esso. È giusto assecondare i propri desideri quando si manifestano. Ancora una volta, dipende anche dal formato. Dei film di Chaplin si tende a ricordare solo i momenti comici, ma in realtà si tratta di puri melodrammi, dove le giovani ragazze sono orfane e per giunta cieche! Gli aspetti esilaranti fanno sempre da contrappunto a storie molte commoventi. Mi è sembrata la vena più consona al tipo di film che volevo realizzare. Peraltro, al di là del mio desiderio di fare un film muto, era da un pezzo che avevo voglia di un vero mélo, non fosse altro che perché è un genere che adoro da spettatore. Ho scritto la sceneggiatura tenendo presente tutto questo, ma all’inizio ho avuto un certo timore a fare mio quell’universo. Fino al giorno in cui non mi sono nemmeno più posto la questione. Quanto agli ammiccamenti a cui accennava, mi piaceva molto l’idea di indugiare nei problemi di quest’uomo prigioniero tra il silenzio e il sonoro e di giocare con la sua situazione che ho esasperato al massimo nella scena dell’incubo. In ogni caso, è impossibile rifare oggi i film che si facevano 90 anni fa. Con tutto quello che hanno visto, gli spettatori sono molto più vivaci, molto più svelti e più scaltri. È eccitante stimolarli. E poi i film che preferisco sono spesso film che si iscrivono in un genere, ma i cui registi, all’interno di quel genere, scorazzano e osano fare quello che vogliono quando vogliono, pur rispettando sempre i canoni e senza mai tradire la promessa.
È facile dosare gli ingredienti?
No, non è facile, perché non riesci a sapere se hai indovinato la ricetta finché non hai una visione globale del film. In realtà, l’equilibro lo ottieni veramente solo in fase di montaggio. Quindi io ho seguito l’idea che avevo, ho iniziato dalla scrittura, non ho assolutamente chiuso la porta davanti a tutto quello che poteva succedere durante le riprese e poi ho compiuto le scelte definitive durante il montaggio. Ma per poter scegliere al montaggio dovevo diverse opzioni.
Ha scritto la sceneggiatura pensando a Jean Dujardin e Bérénice Béjo?
Sì, ma tenendo presente che avrebbero potuto rifiutare, soprattutto un progetto del genere. Ad ogni modo, quando ho dato la sceneggiatura a Jean, non ero affatto sicuro di nulla. Gli ho detto: “Vorrei che lo interpretassi tu, ma non sentirti in alcun modo obbligato! Se non ti dice niente, se non lo senti, se non ne hai voglia, non c’è problema.” L’ha letta molto velocemente su un treno che lo portava nel sud della Francia e all’arrivo mi ha telefonato per dirmi che gli piaceva moltissimo e che voleva fare il film!
È la prima volta che lo fa recitare sul registro dell’emozione…
Sì. Mi piace molto quando recita alla Gassman, molto proiettato, brillante, estroverso, solare. La mia idea era partire da lì e condurlo verso qualcosa di più interiore, di più raccolto…
Cosa l’ha indotta a pensare che fossero gli attori ideali per interpretare i personaggi di questa storia?
Innanzitutto, Jean è un attore che funziona sia in primo piano, grazie all’espressività del suo volto, sia in campo lungo, grazie al suo linguaggio corporeo. Sono pochi gli attori che rendono in entrambi i tipi di inquadratura e Jean è uno di questi. Inoltre ha un viso senza tempo, che può facilmente essere “vintage”. Anche Bérénice ha un viso di questo genere: la guardi e non fatichi a immaginare che Hollywood la scelga e la trasformi in una grande star… Emana una grande freschezza, una grande positività, una grande bontà, quasi eccessiva! In un certo senso, i personaggi che interpretano sono abbastanza vicini a loro, o quanto meno, alla visione che ho io di loro. Per certi aspetti, Georges Valentin e Peppy Miller sono la mia versione fantastica di Jean e Bérénice.
Girare a Hollywood era un’altra delle sue fantasie?
Ovviamente! Anche in questo caso devo ringraziare Thomas Langmann. Se mi avesse detto: “Ok per il film, ma lo giriamo in Ucraina”, io sarei andato a girarlo in Ucraina. È stato lui a farsi in quattro per consentirci di filmare dove era giusto filmare, nel luogo dove si svolge l’azione del film…
E non si trattava solo di “girare a Hollywood”, ma di girare nel cuore stesso di Hollywood, nelle strade di Warner e Paramount, un film che racconta la Hollywood degli anni ’20 e ’30…
Esatto e per una persona che ama il cinema, i sopralluoghi di questo film assomigliavano a un fantastico pacchetto vacanze! Abbiamo visitato gli studios, siamo andati negli uffici di Chaplin, nei teatri di posa dove ha girato La Febbre Dell’oro, Luci Della Citta’, ecc., abbiamo visitato l’ufficio di Harry Cohn e quello di Mack Sennett, gli studi di Douglas Fairbanks… È stato incredibile! Nel film, la casa dove abita Peppy è la casa di Mary Pickford, il letto in cui si sveglia George Valentin, è il letto di Mary Pickford. Ci siamo trovati in luoghi assolutamente mitici. Una volta che inizi a girare, ti immergi nel lavoro e l’aspetto fantastico inevitabilmente un po’ si affievolisce. Tuttavia, abbiamo avuto frequenti lampi di lucidità e momenti in cui ci siamo detti: “Comunque siamo a Hollywood!”. E per giunta con Dujardin. Jeannot a Hollywood! E per un film francese!
Qual è stata la reazione della comunità hollywoodiana?
La sensazione era che fossero curiosi e al tempo stesso commossi. Innanzitutto, perché con il cinema francese hanno un rapporto un po’ schizofrenico e nel famoso dibattito tra cinema-arte e cinema-industria, la Francia occupa un posto a parte. E poi per via della particolarità di questo progetto: un film muto, in bianco e nero, sulla storia di Hollywood. Abbiamo ricevuto moltissime visite e un sacco di telefonate e ci hanno raccontato tantissimi aneddoti che in alcuni casi non risalivano all’epoca del muto. Il padre di James Cromwell (che interpreta il maggiordomo di Valentin) si trasferì a Hollywood nel 1926 e prima di diventare regista iniziò a lavorare nel cinema scrivendo intertitoli per i film muti. Il fatto che parlassimo della loro memoria, della memoria dell’essenza della loro vita, li toccava profondamente. E poi, per persone che fanno cinema, realizzare oggi delle immagini in bianco e nero non è cosa da poco. Molto rapidamente, si sono tutti resi conto che era una straordinaria occasione di lavoro per ognuno dei reparti di lavorazione: scenografie, costumi, trucco, elettricisti…
Nella sua troupe c’era qualche attore americano – James Cromwell, John Goodman, Malcolm McDowell – e anche molti collaboratori americani – lo scenografo, il costumista, il primo aiuto regista, ecc. Come li ha scelti?
Ho fatto dei casting, ho scelto alcune persone, ma ci sono anche state persone che hanno scelto il film. Per quanto riguarda le scenografie, negli Stati Uniti l’organizzazione è un po’ diversa. C’è uno scenografo che cura la parte visiva e poi sceglie l’architetto di scena. Ho innanzitutto scritturato Larry Bennett, ma avevo già un’idea molto precisa di quello che volevo e siamo stati molto aiutati dai luoghi stessi in cui abbiamo scelto di girare. Mark Bridges è il creatore dei costumi di Paul Thomas Anderson. Un grande riferimento! È bravissimo e fa davvero impressione vederlo all’opera. Abbiamo iniziato la preparazione con una troupe piccolissima, fatta di tre o quattro persone, che è cresciuta man mano che ci avvicinavamo alle riprese. In fondo, Hollywood è molto piccola e oggi vi si girano soprattutto serie televisive. La voce si è sparsa in fretta e si sono entusiasmati tutti. Ben presto si sono presentate persone che avevano voglia di lavorare con noi, come il caposquadra elettricisti, Jim Planette, un ruolo importante nell’ingranaggio, perché è davvero il braccio destro del direttore della fotografia. Alcune persone del reparto macchine da presa si sono offerte di costruire degli speciali obiettivi e hanno tirato fuori dagli armadi dei vecchi proiettori. Il direttore del casting mi ha detto che Malcolm Mac Dowell voleva incontrarmi. Avevo da proporgli solo un piccolissimo ruolo, quasi una comparsata, ma lui era felicissimo! Con John Goodman ogni cosa si è definita molto rapidamente: gli ho mandato la sceneggiatura, lui l’ha letta e pochi giorni dopo abbiamo concordato tutto in tre minuti nell’ufficio del suo agente! Con James Cromwell, sono stato più che altro io a fare il provino. Gli è piaciuta la sceneggiatura e il progetto e ha chiesto di incontrarmi. Ci siamo visti, mi ha interrogato per un’ora e mezza, facendomi delle domande precise in un ordine preciso e poi pian piano abbiamo iniziato a capirci e ad apprezzarci, finché alla fine mi ha detto: “Ok, I’ll be your lady!“
Jean Dujardin e Bérénice Béjo dicevano le battute anche se non le sentiamo?
A volte sì e a volte no. Me le hanno chieste durante tutta la preparazione, ma io non volevo dargliele. Pensavo “Sono attori, quindi lavoreranno sul testo” e, per questo progetto, non volevo assolutamente che lo facessero. Alla fine hanno lavorato su altre cose, di sicuro sul tip tap! Non abbiamo fatto la classica lettura, ma ovviamente abbiamo parlato molto dei personaggi, delle situazioni, delle sequenze, dello stile di recitazione, ecc… Ho cercato di rassicurarli sul fatto che non avrebbero dovuto recitare alla “film muto” e che, se io non avevo cannato la sceneggiatura, non avrebbero dovuto recitare in modi particolari. Bérénice, che ha seguito il progetto fin dall’inizio, aveva sicuramente un numero maggiore di riferimenti, ma penso che per entrambi girare questo film sia stato un esercizio molto speciale. È come se si fossero trovati privi di punti di riferimento. Conosco bene Jean e so che riesce a calarsi subito in un personaggio quando ne imposta la voce. Qui non poteva ricorrere a questo espediente. Per molti attori, la voce è uno straordinario asso nella manica e loro si sono trovati a doverne fare improvvisamente a meno. Non avevano bisogno di preoccuparsi del fatto di essere intonati o stonati. E al tempo stesso dovevano astrarsi dal testo, che di solito è un supporto essenziale per esprimere emozioni e sentimenti. Qui, tutto doveva essere reso sul piano visivo, senza l’ausilio delle parole, dei sospiri, delle pause, delle intonazioni, di tutte quelle variazioni che abitualmente usano gli attori. Penso che il loro compito sia stato difficilissimo, poiché, più che mai, la loro recitazione ha realmente assunto significato nell’inquadratura, nel contesto di una scena che è stata montata solo in seguito. Fortunatamente, tra Jean, Bérénice e me, la fiducia è totale.
Lavorare a un film muto e quindi soprattutto sull’emozione, ha modificato il vostro modo di concepire il vostro mestiere?
È stato inevitabilmente un lavoro un po’ diverso per tutti. Penso che l’aver lavorato con Nicole Garcia e Bertrand Blier avesse già un po’ cambiato Jean, rendendolo più incline ad avventurarsi in territori più intimi, più profondi, più vulnerabili. Probabilmente ora si butta più facilmente senza una rete di protezione… Forse anche a causa della natura del film, Bérénice ha voluto prepararsi molto. Ha ingaggiato un coach, si è enormemente documentata, è andata alla Cinémathèque a vedere i film muti, ha letto molte biografie d’attrici. Poi non ha dovuto fare altro che dimenticare tutto quel lavoro e calarsi nel personaggio dall’interno. I primi giorni sul set, mentre giravamo alcune scene, è stato bello notare uno scatto e vedere all’improvviso comparire concretamente i personaggi. Per Bérénice è stata la scena al ristorante in cui Peppy Miller rilascia un’intervista e diventa consapevole del suo nuovo status di star. Si è lasciata completamente andare e ha provato un grande piacere nel farlo e a un tratto noi tutti abbiamo visto apparire il suo personaggio. Per Jean è stata la scena in cui George Valentin toglie le lenzuola che nascondono i suoi mobili che Peppy ha comprato all’asta. Durante quella scena era talmente trasfigurato che tutti i membri della troupe sul set hanno provato un vero brivido. Dopo, l’unica difficoltà per loro, come del resto per tutti noi, per me, per Guillaume (Schiffmann, il direttore della fotografia), è stata restare a quel livello così alto, mantenere quell’ambizione a lungo termine, durante le sette settimane di riprese. In sostanza, mantenere la promessa.
Visto che le riprese erano mute, dava molte indicazioni tra un ciak e l’altro?
Più che altro sul set ho potuto mettere la musica che ha avuto letteralmente l’effetto di trasportarli, al punto che alla fine non ne potevano più fare a meno! Mettevo principalmente musica hollywoodiana degli anni ’40 – ’50: Bernard Hermann, Max Steiner, Franz Waxman, ma anche Gershwin, Cole Porter… Ho quindi usato molto VIALE DEL TRAMONTO, ma sentivamo anche COME ERAVAMO e persino le musiche composte da Philippe Sarde per L’AMANTE. È una melodia magnifica e sapevo che Jean ha un rapporto particolare con quel tema. La prima volta che l’ho messa sul set, non l’ho avvertirlo sapendo che avrei suscitato una sua reazione durante la ripresa. E infatti così è stato. Ho fatto la stessa cosa con Bérénice per la scena in cui arriva in ospedale: le ho messo il tema di Laura, una melodia che adora. Credo che sia stato molto gratificante per entrambi. In altri momenti, ho messo uno dei primi temi composti da Ludovic Bource per il film. Recitare una scena a suon di musica è magnifico per trovare rapidamente il tono giusto. Per gli attori ha significato riuscire a relazionarsi con la recitazione in modo diverso, più sensibile, più intimo, più immediato. Per me è stato molto piacevole vederli sbocciare grazie alla musica. A volte, quando trovi il tema giusto per una determinata sequenza, le note sono molto più eloquenti di tutte le parole. Di fatto, con questo film mi sono reso conto che il discorso è indubbiamente un atto straordinario, ma è anche fondamentalmente riduttivo.
Come ha detto lei, in un film muto tutto si basa, molto più del solito, sulla regia e sulla luce. Come definirebbe le sue scelte estetiche?
In questo caso, la regia, le inquadrature, il montaggio non potevano che essere il proseguimento della sceneggiatura. Naturalmente, mi sono lasciato alcune porte aperte e mi sono preso tutte le libertà che ho voluto, ma prima avevo comunque fatto uno storyboard completo. Volevo essere sicuro che tutto potesse essere raccontato e fosse comprensibile. Non potevo compensare con i dialoghi. Mi piace comporre le inquadrature, mi piace definire ogni ripresa, mi piace che ogni inquadratura abbia un senso. Adoro giocare sui contrasti, sui grigi, sulle composizioni, sulle ombre, collocarli all’interno del quadro, trovare una scrittura visiva, dei codici, dei significanti. Racconto a me stesso un sacco di storie per metterle in scena e cercare di ricavarne una il più possibile coerente e rotonda e che dia l’impressione di essere semplicissima. Per quanto riguarda le luci, tra me e Guillaume (Schifmann) c’è più di una semplice collaborazione. THE ARTIST è il terzo film che faccio con lui e abbiamo realizzato insieme anche degli spot pubblicitari, ci conosciamo molto bene. Appena ho avuto l’idea del film, l’ho informato e anche lui si è documentato moltissimo. Gli ho indicato molti film da guardare, è venuto alla Cinémathèque per vederli sul grande schermo, si è informato sulle tecniche, le macchine da presa, gli obiettivi dell’epoca. Ha quindi svolto un ruolo particolare nel processo, è stato una specie di sparring – partner, con in più la responsabilità tecnica della macchina da presa e della luce. Adoro il nostro modo di lavorare. Ad ogni modo, l’idea era la stessa per tutti: documentarsi, nutrirsi, comprendere a fondo le regole per poterle poi dimenticare meglio. Alla fine, quello che doveva prevalere era la chiarezza del racconto, la giustezza della situazione, l’impatto della scena.
Secondo lei, qual’era il pericolo più grande di questo film?
Quello che cerco sempre di evitare è di lasciarmi trasportare dall’umore del set, perché l’umore del set non ha nulla a che vedere con l’umore di un film. In questo caso, il pericolo era che la promessa del film era grande e noi non dovevamo essere da meno. Ci sono molti modi per non raggiungere un obiettivo che ci si prefigge. Un altro pericolo era, per non fare aspettare la troupe tre ore, per non perdere tempo, abdicare alle nostre esigenze e, per esempio, non ricostruire una scenografia che non funzionava o non dedicare abbastanza tempo a cercare un’altra idea quando ci rendevamo conto che quello che avevamo ipotizzato non funzionava fino in fondo, visto che in questo film l’immagine aveva un’importanza capitale dal momento che ogni dettaglio racconta qualcosa. Quindi i due pericoli più grandi erano il compiacimento e la svogliatezza.
In un film muto, anche la musica ha un’importanza capitale. Come avete proceduto?
Come al solito, mi sono rivolto a Ludovic Bource. Del resto era da tempo che gli parlavo della mia fantasia di realizzare un film muto! Abbiamo parlato molto. Appena ho iniziato a scrivere, gli ho dato i dischi che ascoltavo scrivendo, i brani degli autori che le ho citato prima: Waxman, Steiner, ecc. Lui è risalito anche ai musicisti a cui si erano ispirati (Prokofiev, Debussy, Ravel) e poi, dopo essersi documentato, ha fatto come gli altri: ha elaborato tutte le informazioni raccolte e si è messo al servizio della storia che dovevamo raccontare. Malgrado abbia composto alcuni temi prima dell’inizio delle riprese, ha avuto ancora più bisogno del solito di vedere le scene montate per riuscire a iniziare realmente a comporre. La nostra collaborazione è stata un po’ più complessa che di consueto. In un film del genere, la musica è quasi onnipresente. Si tratta quindi di una musica piuttosto particolare, che deve soprattutto tener conto di tutti gli umori, ma anche di tutte le variazioni e le rotture, di tutti i conflitti e i cambi di direzione di ciascuna sequenza, sia per allontanarsi da essi, sia per accompagnarli. In ogni istante si impone una scelta, che è una scelta di sceneggiatura e come tale non può essere lasciata solo nelle mani del compositore! Ho quindi strutturato il film in blocchi narrativi indicando a Ludovic e ai suoi arrangiatori il tipo di umore che volevo e definendo i punti di corrispondenza tra la musica e le immagini che mi sembravano fondamentali e i momenti in cui al contrario mi sembrava che la musica dovesse allontanarsi dalla narrazione per non rischiare di diventare stancante o fastidiosa. Tutto questo ha necessariamente richiesto un confronto intenso e frequente tra loro e me. Non ho reso più facile il loro compito, ma hanno fatto un lavoro notevole.
Di cosa è più orgoglioso?
Innanzitutto del fatto che questo film esista! E che assomigli all’idea che avevo di esso. Trovo che sia un bell’oggetto, che mantenga la sua promessa.
Secondo lei qual è il più grande pregio del produttore Thomas Langmann?
Il fatto che non ha limiti: è pazzo e si dota dei mezzi per vivere la sua follia. È pieno di brio e lo semina ovunque. È sfrontato, tenace, rispettoso del lavoro e soprattutto ha una voglia di vedere un tipo di cinema che va al di là di qualsiasi cosa. Più che a un produttore, mi fa pensare a un principe fiorentino, a un mecenate. Lo adoro.
Se dovesse conservare un solo momento di tutta questa avventura, quale sceglierebbe?
Ce ne sono troppi. Il primo che mi viene in mente, è la festa di fine riprese. Abbiamo girato il film in 35 giorni, alla fine eravamo sfiniti, ma eravamo là, a Hollywood, un manipolo di francesi in mezzo agli americani, ma eravamo una squadra. E avevamo fatto il film che speravo. Mi piaceva il modo in cui ci guardavamo tutti quella sera, lo trovavo toccante. Ma ho vissuto molti momenti forti, moltissimi. E spero che non siano finiti!
Vi invitiamo anche alla lettura di un’altra intervista fatta sempre al regista Michel Hazanavicius che potete trovare a questa pagina.