In solitario: intervista a Jean Cottin, sceneggiatore
Intervista a Jean Cottin, sceneggiatore della commedia francese In solitario (En Solitaire).
di Redazione / 29.10.2013
Vi proponiamo l'intervista fatta a Jean Cottin, sceneggiatore del film In solitario (En Solitaire), la commedia francese diretta e co-scritta da Christophe Offenstein, al cinema in Italia dal 21 Novembre prossimo.
Qual e' stato il punto di partenza di questa avventura?
Tutto è nato da un'idea originale di Frédéric Petitjean che raccontava la storia di uno skipper che aveva partecipato alla Vendée Globe e aveva scoperto solo dopo molti giorni di avere a bordo un passeggero clandestino. Ho avuto un colpo di fulmine per questo progetto, di cui la Gaumont possedeva i diritti, e mi è venuta voglia di produrlo perché aveva il potenziale di un grande film d'avventura come se ne vedono pochi nel cinema francese di oggi. Al di là dell'impresa sportiva, che serve solo come base alla storia, è un film che racconta un percorso fuori dal comune, un viaggio interiore che rappresenta uno straordinario soggetto per una storia.
Ha deciso fin dall'inizio di realizzare il film in condizioni reali, cioe' girando in mare aperto?
Abbiamo prima considerato a fondo la possibilità di girare in studio con una piscina e la ricostruzione di un'imbarcazione a grandezza naturale, che si sarebbe dondolata a 5 metri d'altezza grazie a dei sostegni idraulici. Ma ci siamo subito resi conto che questo ci avrebbe allontanato dalla nostra storia e dall'intensità che volevamo darle. Questa gara non è una cosa da poco: è un'odissea che dura 80 giorni con tutte le enormi difficoltà che comporta. Per darle l'autenticità e la forza indispensabili era necessario che la vivessimo anche noi.
Una volta presa la decisione, quali sono state dal punto di vista di un produttore le difficolta' di girare in mare aperto?
Sul piano tecnico bisognava riuscire a realizzare in mare immagini che corrispondessero alla storia che Christophe Offenstein ed io avevamo scritto. Questo riguardava la scelta dell'imbarcazione, delle attrezzature tecniche da portare a bordo e, soprattutto, del punto di vista da adottare. Con Christophe abbiamo scelto di immergerci completamente, decidendo di non riprendere l'oceano dall'esterno ma di stare a bordo del veliero, al posto dello skipper, in modo che lo spettatore potesse vivere la quotidianità del personaggio, le sue giornate e le sue notti, e di andare oltre le immagini che già conosce della Vendée Globe.
Come sono state organizzate le riprese?
Eravamo 18 persone a bordo di un'imbarcazione fatta per una regata in solitaria: c'erano tre veri esperti di navigazione (uno skipper e due membri di equipaggi) che controllavano il buon andamento della barca, i nostri due attori, François Cluzet e Samy Séghir, e la squadra tecnica, con due macchine da presa. Anche se i due universi potrebbero sembrare agli antipodi, c'è un vero parallelismo tra il mondo delle gare in mare e una troupe cinematografica: il film, come una barca, può trovarsi ad affrontare delle tempeste. Il capo a bordo è il regista, ed è sorretto dalla sua troupe, come lo skipper ha i suoi assistenti a terra. Infine, in entrambi i casi, c'è il finanziamento del progetto, distributori da una parte e sponsor dall'altra. Insomma, ci siamo resi conto, stando vicini a gente di mare a Lorient, dove avevamo la nostra base, che avevamo molti punti in comune.
Lei che da produttore ha vissuto molte avventure, in cosa pensa si sia differenziata questa?
Col mare non si scherza. Noi dovevamo costruire una storia, come si fa normalmente al cinema, ma in mezzo ad elementi che non potevamo in alcun modo controllare: il meteo, il vento, le onde, e perfino alcuni condizionamenti psicologici come il mal di mare. Tutto ciò ha dato vita ad un'esperienza eccezionale, un'avventura cinematografica come raramente se ne vedono.
E' soddisfatto del risultato?
Siamo riusciti ad evitare la trappola nella quale non volevamo cadere: farsi travolgere dall'oceano e creare belle immagini del mare e della barca che avrebbero potuto distoglierci dalla storia. Per noi la natura non doveva essere che la cornice della vicenda, e bisognava che la narrazione, la recitazione degli attori e le emozioni rimanessero il cuore del film. Quello che può esserci di spettacolare nelle immagini non doveva essere il risultato di effetti speciali, ma del realismo delle riprese fatte. Quanto all'avventura umana che abbiamo vissuto tutti insieme, è indimenticabile e va al di là del cinema.