Un Nemico Invisibile (2022)
Un Nemico InvisibileLa famiglia Rasman cerca giustizia per Riccardo, disabile mentale ucciso brutalmente dalla Polizia per futili motivi. I due anziani genitori e la sorella Giuliana provano inutilmente ad affrontare le istituzioni e dare un senso a questa mancanza, restando circondati dall'indifferenza.
La vita dei Rasman, una famiglia di esuli istriani trapiantati nella periferia di Trieste, è sconvolta dall'ingiusto omicidio di Riccardo, un ragazzo con disabilità mentali, da parte della Polizia, che nel tentativo di arrestarlo lo comprime fino a provocargli un'asfissia. Per i genitori novantenni e la sorella Giuliana la blanda condanna inflitta ai poliziotti è insufficiente, ma nessuno sembra disposto a prestare loro ascolto. Nel tentativo di elaborare un avvenimento così incomprensibile si fanno strada teorie ed interpretazioni alternative che diano conto di tutte le ingiustizie subite. Dietro la morte di Riccardo potrebbe esserci lo stesso nemico che da anni ordisce piani per appropriarsi del loro terreno. La verità sfugge ad ogni tentativo di approfondimento, l'unico dato certo rimane una mancanza così lacerante da far desiderare la fine del mondo.
Info Tecniche e Distribuzione
Genere: DocumentarioNazione: Italia - 2022
Durata: 75 minuti
Formato: Colore
Produzione: Takaità Film, Purple Neon Lights (co-produzione), Kublai Film (co-produzione), Fondo per l'Audiovisivo del Friuli Venezia Giulia (con il sostegno di), Friuli Venezia Giulia Film Commission (con il sostegno di)
Cast e personaggi
Regia: Federico Savonitto, Riccardo CampagnaSceneggiatura: Federico Savonitto, Riccardo Campagna
Musiche: Paolo Corberi, Renzo Fanutti, Mirko Cisilino
Fotografia: Federico Savonitto
Montaggio: Domenico De Orsi
Produttori:
Federico Savonitto (Produttore esecutivo)
Assistente alla regia: Camilla Iannetti | Story Editor: Cinzia Masòtina | Suono: Riccardo Campagna, Francesco Scarel | Sound design: Eric G. Nardin | Color: Efsio A. Scanu | Direttrice di produzione: Erika Rossi.
Immagini
Curiosità
RICCARDO RASMAN
Il 27 Ottobre 2006, Riccardo Rasman, secondo e ultimo figlio di una famiglia di contadini istriani esuli in Italia dagli anni sessanta, viene brutalmente ucciso nella sua abitazione durante un intervento della Polizia. Riccardo aveva 34 anni e soffriva di schizofrenia paranoide. Quella sera era solo in casa, nudo, e stava tirando dei petardi dall'ottavo piano. La Polizia, chiamata dai vicini di casa, era stata avvertita dal centralino del fatto che il soggetto soffriva di patologie psichiche; ciononostante agì con la forza bruta, sfondando la porta che Riccardo non voleva aprire. Dai referti risulta che lo pestarono duramente, legandogli mani e piedi con del fil di ferro ed infine sedendosi sul suo corpo incaprettato, fino ad asfissiarlo. Riccardo, all'arrivo della polizia, si era barricato in casa perché terrorizzato dalle forze dell'ordine. Questa fobia gli proveniva dal nonnismo subito durante le leva militare, scaturigine, per altro, dei suoi problemi psichiatrici. Non sussisteva alcuna ragione per sfondare violentemente la porta, sarebbe bastato richiedere l'intervento di un infermiere o assistente sociale. Si sarebbe potuto risolvere tutto serenamente. Sul tavolo della cucina Riccardo aveva lasciato un bigliettino con su scritto: "Per favore, per piacere, per carità, non fatemi del male. Non ho fatto nulla di male." La sorella Giuliana, insieme ai genitori, non ha mai smesso di cercare verità e giustizia per Riccardo, ma le continue delusioni, il mancato riconoscimento di una pena adeguata ai poliziotti coinvolti e di un risarcimento alla vittima, l'ha spinta sempre più lontano, alla ricerca di un mandante per un caso altrimenti inspiegabile.
"Era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo. Aveva un segno di imbavagliamento, sangue dalle orecchie, dal naso, dalla bocca. […] I capelli erano tutti pieni di sangue. C'era sangue sul tavolo, sui muri, sulle lenzuola, dietro il letto per terra, c'erano chiazze sul tappeto sotto il quale abbiamo trovato persino dei pezzi di carne nascosti". – Giuliana, sorella di Riccardo Rasman
"La morte di Rasman era pacificamente evitabile…". – Tribunale di Trieste
"La famiglia è stremata dopo dieci anni di lotte contro lo Stato". – Avv. Claudio DeFilippi
Note di Regia
Questo film nasce dal desiderio di approfondire una vicenda ingiustamente lasciata ai margini della cronaca, che porta in sé elementi di attualità che ci interrogano sui principi stessi della nostra cosiddetta civiltà. La morte ingiusta di Riccardo rivive in ogni gesto dei suoi familiari, tanto in quelli piccoli e impercettibili come sospiri, quanto in quelli grandi ed eclatanti come le proteste e le iniziative legali. Nel nostro film le battaglie e i fallimenti della famiglia Rasman stanno allo stesso livello delle loro quotidiane accettazioni e necessità, in quel divenire in cui si mimetizza l'evoluzione dei sentimenti. Accompagnando la ricerca inesausta dei nostri protagonisti con empatia e delicatezza offriamo agli spettatori uno spazio di immedesimazione in una fitta trama di emozioni contrastanti. Ci siamo serviti dello strumento della narrazione per rispettare la complessità di una vicenda che non può essere ridotta ad alcuna semplificazione. Da una storia con un forte tema civile ci connettiamo così con territori ancora più vasti e universali della condizione umana, come la necessità di dare un senso alla disperazione di una madre a cui viene tolto un figlio senza ragione.
Intervista ai Registi
La storia di Riccardo Rasman è meno nota, per esempio, dei casi di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Come ne siete venuti a conoscenza e cosa vi ha spinto a raccontarla?
Riccardo Campagna: Era la metà del 2018 quando ho visto "Sulla mia pelle" insieme a Tatjana Lentini, un'artista tedesca che all'epoca era la mia compagna. Il film ci scosse tantissimo e ci spinse a informarci di più sul tema degli omicidi da parte delle forze dell'ordine. Una storia in particolare ci colpì, era quella di Riccardo. Riccardo infatti è stato vittima due volte da parte delle forze dell'ordine: a 20 anni durante il servizio militare, quando il nonnismo scatenò la sua malattia, e in occasione del suo omicidio quattordici anni dopo. Tuttavia in un primo momento non mi spinsi oltre l'interesse e la ricerca; non avevo la minima idea di fare un documentario su questa storia, non ci pensavo. L'idea scattò un giorno quando casualmente entrai in contatto con la famiglia di Rasman. Avevo visto un video su Youtube che raccontava la morte di Riccardo in maniera molto diversa dai report ufficiali e quindi scrissi all'autore di quel video che si rivelò essere proprio Giuliana, la sorella di Riccardo. Parlando con Giuliana ho percepito subito la sua voglia di raccontare la propria storia e mi è sembrato naturale proporle di incontrarci. Prima dell'incontro ho pensato di chiedere di accompagnarmi a Federico Savonitto, con cui avevo avuto un ottimo rapporto al CSC. Lui ha accettato con molto entusiasmo e così abbiamo cominciato questa avventura.
Federico Savonitto: Quando Riccardo Campagna mi ha chiamato per raccontarmi la storia di Riccardo Rasman e per dirmi del suo desiderio di conoscere Giuliana Rasman personalmente, mi ha subito toccato al cuore: quel caso non mi era giunto alle orecchie nonostante nel 2006 io mi trovassi a Trieste per concludere i miei studi universitari, e nonostante la tematica mi stesse già allora molto a cuore. Dieci anni prima, nel '96, era stato ucciso un ragazzo di San Vito al Tagliamento – Michail Piotr Tracanelli – dalla Polizia, e in quel caso non era stata fatta luce sulle responsabilità: io che in quegli anni ero iscritto al Liceo Scientifico della stessa cittadina e che frequentavo lo stesso giro di Michail, rimasi sconvolto, e decisi di scrivere la mia prima canzone su quell'ingiustizia. Tornando al momento in cui Riccardo mi ha chiamato nel 2018, stavo girando il documentario "In un futuro aprile – Il giovane Pasolini", in co-regia con Francesco Costabile e mi trovavo in Friuli, proprio nei pressi di San Vito al Tagliamento. Ho pensato che una storia del genere Pier Paolo Pasolini si sarebbe sentito in dovere di narrarla, ho desiderato subito approfondire l'argomento, mi sono chiesto come fosse possibile che di un caso simile si fosse parlato così poco, e naturalmente in questo turbinio di pensieri ho subito detto a Riccardo di prendere un volo per il nord est al più presto. A quel punto ci siamo incontrati con Giuliana in una caffè di Domio, alle porte di Trieste, siamo andati a casa dei Rasman e siamo stati accolti con gentilezza. Alla fine di quella giornata ci eravamo presi così a cuore la loro storia da non avere scelta.
Quanto e come la storia ha influito nella scelta del linguaggio?
Federico Savonitto: All'inizio abbiamo iniziato a frequentare i Rasman soprattutto per documentarci, e pensavamo fosse necessario, per rispettare la complessità della storia, utilizzare un linguaggio il più possibile composito: avevamo immaginato delle interviste per approfondire temi come il nonnismo, la migrazione istriana, la malattia mentale in una città come Trieste. Per un periodo breve abbiamo continuato di pari passo a seguire la quotidianità dei Rasman e altre piste parallele, che si sarebbero espresse attraverso l'intervista, ma anche attraverso un utilizzo del repertorio che immaginavamo come esplicativo di alcune tematiche importanti. Durante quel periodo anche l'ipotesi di metterci in scena come registi che entravano in contatto con il mondo dei Rasman ci sembrava potesse essere la scelta giusta. Mano a mano che conoscevamo persone esterne alla famiglia, facevamo ricerca e scrivevamo, ci siamo resi conto che la vera forza del film risiedeva nella vita quotidiana dei Rasman, nella dignità con cui vivevano il loro dolore, nelle loro fatiche, nei loro volti e, perché no, nel loro linguaggio.
Riccardo Campagna: Io e Federico abbiamo un background di studio e di lavoro nel documentario di creazione, il nostro presupposto è stato metterci in ascolto dei nostri protagonisti ed immergerci nelle loro vite, nei loro ritmi, nei loro problemi grandi e piccoli, per capirne i valori, gli orizzonti esistenziali. In questi anni di riprese abbiamo condiviso con loro il cibo, il lavoro nei campi, le battaglie in tribunale, i pomeriggi assolati, le serate in salotto a guardare la TV. Abbiamo ricercato non tanto l'invisibilità zavattiniana ma un contatto sincero fra noi e i Rasman, in una sorta di microetnografia partecipata, potremmo dire. Ci è voluto un poco perché loro capissero il lavoro che intendevamo fare, perché erano abituati ad avere a che fare con giornalisti, e quindi con il linguaggio giornalistico, ma piano piano hanno capito che ci saremmo presi tutto il tempo che occorreva perché noi intendevamo raccontare la LORO storia e non solo quella dell'omicidio di Riccardo.
Come avete convinto la famiglia Rasman a lasciarsi coinvolgere nel vostro progetto?
Federico Savonitto: Se la relazione con Duilio, Maria Albina e Giuliana è nata in modo davvero molto naturale e si è basata fino alla conclusione del film sulla fiducia, una delle parti difficili è consistita nel cercare di spiegare ai Rasman quanto la tipologia di cinema che facciamo noi richieda tempi molto lunghi di osservazione, per riuscire a cogliere quegli snodi narrativi che muovono il racconto del film. Ci abbiamo tenuto a mantenere un rapporto di grande chiarezza, spiegando sempre il tipo di lavoro che volevamo realizzare e a ricercare continuamente la giusta distanza emotiva: il rischio era quello di legarci fin troppo a questa famiglia, fino al punto di esser come dei figli, o tutt'al più, dei nipoti. Quando Duilio è stato male nell'estate del 2021 siamo corsi immediatamente a Trieste e abbiamo cercato di dare una mano in tutti i sensi, in un momento particolarmente difficile per tutti e anche per noi, per quanto ci eravamo affezionati a lui. Poche settimane dopo, quando Duilio è mancato, siamo stati vicini alla famiglia in tutti i modi, e intendo con questo che spesso passavamo le giornate a zappare la terra per aiutare Giuliana a portare avanti la campagna: in realtà non era affatto la prima volta ma ora il significato era purtroppo cambiato. Abbiamo dovuto far fronte a tutte le evoluzioni che la storia portava con sé e raramente si trattava di trasformazioni in positivo.
Riccardo Campagna: I Rasman vogliono raccontare la loro storia perché sono alla ricerca di giustizia, che può passare attraverso un'attenzione pubblica, come è successo nel caso di "Sulla mia pelle". Noi in quanto documentaristi raccontiamo storie, e quindi, per affinità elettive possiamo dire, il coinvolgimento in questo progetto è stato da subito reciproco e totale. Giustamente abbiamo dovuto entrambi, noi e loro, trovare il modo giusto di vivere questa cosa, ma questa è la cosa bella, perché è un percorso che abbiamo fatto insieme. Noi abbiamo imparato a raccontarli, e loro ad essere raccontati. Infatti anche l'idea di fare di questo film la loro storia e non solo quella di Riccardo è un'idea che abbiamo condiviso e per cui si sono aperti al 100%.
Nel raccontare questa storia siete stati in qualche modo ostacolati?
Riccardo Campagna: No, ma abbiamo dovuto auto-produrci nonostante il tantissimo lavoro speso alla ricerca di una produzione che volesse sposare la nostra storia. Credo che ad influire sia stata la nostra scelta di non fare di questa storia un mero film crime, ma di osare di più, cercando delle chiavi di lettura più profonde e meno lineari di quelle che generalmente vengono proposte in storie di questo genere.
Federico Savonitto: Dopo un paio d'anni alla ricerca di qualcuno disposto a produrre "Un nemico invisibile", (che all'epoca si intitolava "Confini"), confortati dalla selezione come finalisti al Premio Solinas per documentari, abbiamo deciso di provare a produrre questo film attraverso la mia ditta individuale, che per l'occasione ho deciso di chiamare "Takaità" (con riferimento al film che Pasolini avrebbe voluto girare dopo "Salò"). Il percorso è stato impervio ma gli ostacoli ci hanno motivato, e – anche grazie all'aiuto di Erika Rossi che ci ha seguiti come direttrice di produzione – siamo riusciti a costruire una struttura produttiva ampia. Moltissimo aiuto ci è arrivato anche da Purple Neon Lights: Domenico De Orsi, che avevamo conosciuto a Torino al mercato IDS, si è entusiasmato al progetto al punto da proporsi per montarlo in in-kind e si è unito alla nostra squadra, che andava crescendo quasi come in una favola; insieme a lui c'era Efisio Scanu che avrebbe curato la color, poi anche Kublai Film ha deciso di entrare in co-produzione, poi la casa di distribuzione Lo Scrittoio, che inizialmente ci ha offerto una consulenza, si è appassionata al film che stava crescendo come una creatura anche loro, e ha deciso di distribuire il documentario. Oltre a queste energie coinvolte, una bella conferma del lavoro fatto ci è arrivato degli enti cui abbiamo chiesto di finanziare l'opera: ciò che ha reso davvero possibile realizzare questo film è stato il sostegno del Fondo Audiovisivo del Friuli Venezia Giulia e del FVG Film Fund.
Qual è il contributo che questo film documentario vuole dare alla storia di Riccardo Rasman?
Federico Savonitto: Sappiamo che la narrazione può giungere nei punti più disparati e inaspettati dell'essere umano a sbloccare qualcosa. Sarei felice se questo film sbloccasse una cosa macroscopica come l'attenzione rispetto allo specifico caso di Riccardo Rasman, ma mi basterebbe che smuovesse qualche emozione e un sentimento di vicinanza per le persone che i nostri protagonisti sono e rappresentano.
Riccardo Campagna: L'auspicio di questo film è di restituire una testimonianza della famiglia Rasman nel suo complesso. Vorrei che questo film insegnasse ad avere più ascolto ed attenzione verso il prossimo. Vorrei che ogni spettatore nel vedere il film si sentisse interrogato sulle proprie credenze e sui propri giudizi. Vorrei che portasse ad avere più attenzione rispetto al tema della violenza perpetrata della polizia.
dal pressbook del film
Eventi
Presentato giovedì 8 settembre 2022 alla 19a edizione delle Giornate degli Autori 2022 in Notti Veneziane, sezione realizzata in accordo con Isola Edipo.
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