The Search (2014)
The Search1999. Seconda guerra in Cecenia. THE SEARCH racconta la storia di quattro persone, di quattro destini che il conflitto farà incrociare. Fuggendo dal suo villaggio, dove i genitori sono stati massacrati, un ragazzino si unisce alla massa dei rifugiati. Incontra Carole, capo delegazione per l'Unione Europea, e lentamente, con il suo aiuto, tornerà alla vita. Nello stesso tempo Raïssa, la sorella maggiore, lo cerca disperatamente tra la folla dei civili in fuga. Poi c'è Kolia, un giovane russo di 20 anni, che si è appena arruolato nell'esercito e che verrà travolto dalla quotidianità della guerra.
Info Tecniche e Distribuzione
Uscita al Cinema in Italia: giovedì 5 Marzo 2015Uscita in Italia: 05/03/2015
Prima Uscita: 24/11/2014 (Francia)
Genere: Drammatico
Nazione: Francia - 2014
Durata: 149 minuti
Formato: Colore
Produzione: La Petite Reine, Worldview Entertainment, La Classe Américaine
Box Office: Italia: 55.263 euro
Note:
Presentato in Concorso al Festival di Cannes 2014.
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Note del produttore – Thomas Langmann
Dopo THE ARTIST desideravo tantissimo, come produttore, prolungare una esperienza magnifica e offrire a Michel i mezzi per realizzare un film altrettanto ambizioso e potente come THE SEARCH. Del lavoro di produttore amo molto il poter accompagnare un regista nel corso dei suoi film, come ha fatto mio padre con Milos Forman o Jean-Jacques Annaud. Il passaggio dal muto in bianco e nero a un film umanitario in quattro lingue e su una storia assolutamente contemporanea come THE SEARCH segna il secondo stadio della nostra collaborazione. Con un progetto così particolare Michel è ripartito da zero. È il fatto di « correre dei rischi » che ci unisce. Se, come produttori, ci assumiamo il rischio di finanziare un progetto come questo, Michel, come regista, si assume lo stesso rischio con il suo soggetto. E c'è riuscito! Ha trasformato un desiderio molto personale in un grande film che siamo estremamente fieri di presentare (Festival di Cannes 2014 in competizione). È per questo che produco film: poter offrire a un regista di talento la possibilità di esprimersi nelle migliori condizioni.
Le interviste
Michel Hazanavicius
È stata la libertà che le ha concesso il successo di THE ARTIST a permetterle di lanciarsi in un progetto così diverso, ma altrettanto difficile e complesso come THE SEARCH?
Il progetto esisteva da parecchio tempo, ma mi sembrava troppo complicato. Senza l'Oscar sarebbe stato impossibile raggiungere il budget necessario. THE SEARCH è un film ai margini del mercato, al limite del fattibile: in quel luogo preciso in cui mi piace situarmi come regista.
Cosa l'ha spinta a scegliere di realizzare un film sulla seconda guerra in Cecenia ?
Hanno contribuito parecchi elementi. Nel 2004 avevo prodotto e scritto con altri RWANDA: HISTORY OF A GENOCIDE, un documentario di Raphaël Glucksmann, David Hazan e Pierre Mezerette. Raphaël è il figlio di André Glucksmann, uno dei pochi intellettuali francesi ad aver tentato di allertare l'opinione pubblica su ciò che avveniva in Cecenia. È attraverso di lui che ho preso consapevolezza della situazione cecena. Immagino anche che in quanto ebreo askenazita, i miei nonni hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale, THE SEARCH sia per me un modo indiretto per tornare a quella storia.
Inoltre un'amica rwandese sfuggita al genocidio mi aveva inviato la mail di un amico che lavorava per Medici Senza Frontiere in Kenya, a Dabaab, nel più grande campo di rifugiati al mondo, dove vivono oltre 400.000 persone. La mail terminava con una frase che mi ha colpito molto: «Più che di documentari, abbiamo bisogno di veri film con delle storie, così che la gente possa capire cosa succede con commozione». In qualche modo ho fatto mia questa richiesta.
E ho avuto voglia di girare un film sulla Cecenia, anche per confutare l'assurda teoria secondo la quale tutti i Ceceni sono terroristi. Non sapevo come approcciarmi a questo tipo di storia, ma avevo chiaro che non doveva passare per un film di guerra. Stavo ancora riflettendo quando Nicolas Saada mi ha fatto scoprire THE SEARCH di Fred Zinnemann (1948), un melodramma su un bambino uscito dai campi di concentramento che incontra un soldato americano tra le rovine di Berlino. Nello stesso tempo sua madre, anche lei sopravvissuta ai campi, lo cerca in tutta Europa. Un bel film che mi ha convinto che quello drammatico poteva essere un buon approccio.
THE SEARCH si ispira al film di Zinnemann, ma se ne discosta anche in modo notevole.
La parte documentaristica, la voice-over solenne, la musica, l'aspetto della madre simile a quello di Cristo, la rapidità con cui il bambino impara l'inglese: sono cose datate. È stato necessario trovare un modo diverso di raccontare la storia. Inoltre ho voluto ampliare la dimensione del film, non mi sono voluto accontentare di un solo punto di vista. Non potevo mostrare che i Ceceni non sono un popolo di terroristi e nello stesso tempo presentare tutti i Russi come come killer dei Ceceni. Volevo invece mostrare come un sistema può stritolare la gente e trasformarla in assassini: è questa la storia che ho aggiunto.
A quali altre fonti si è ispirato ?
FULL METAL JACKET, ovviamente, per come l'esercito riesce a formare un assassino. Ma forse più a One Soldier's War in Chechnya, il libro di Arkady Babchenko, che descrive la vita nella caserma di Mozdok con una reale capacità di analisi e un grande talento di scrittore. Fatte le debite proporzioni, il libro mi ricorda Se questo è un uomo di Primo Levi. Ci sono pochi documentari sulla Cecenia. Ho letto i saggi politici di Anna Politkovskaïa da un lato, e quelli di Boris Cyrulnik sulla resilienza dei bambini dall'altro, per capire il percorso di chi, dopo un trauma, torna poco a poco alla vita. Inoltre due amici ceceni hanno raccolto delle testimonianze e me le hanno inviate. Ma penso che la sceneggiatura sia costellata di reminiscenze più o meno consapevoli del genocidio degli Ebrei.
Perchè ha scelto di girare in Georgia ?
Ho coprodotto ORANGE 2004, un documentario sulla rivoluzione in Ucraina, diretto da Raphaël Glucksmann che, dopo una serie di incontri che aveva fatto, si era stabilito in Georgia e io sono andato a trovarlo. Ho scoperto un paese che da un lato ha il Caucaso e dall'altro la Cecenia e ho pensato che corrispondeva all'idea che tutti noi abbiamo della Cecenia: la patina, i materiali, tutto un universo di rovine che ricordava i film del dopoguerra, THE THIRD MAN, A FOREIGN AFFAIR, THE SEARCH (1948), IT HAPPENED IN EUROPE… Quel tipo di look mi è sembrato una buona allegoria dello stato emotivo dei personaggi.
Ha ricostruito i set ?
Molto poco. La caserma è una vera caserma, situata nella periferia di Tbilisi. L'appartamento di Carole è un appartamento cui abbiamo semplicemente abbattuto i muri… I campi dei rifugiati sono stati ricostruiti con vere tende, in un campo ai piedi del Caucaso. Non ho voluto green screen, non ho voluto moltiplicare le comparse con il digitale. Volevo essere sul posto.
La troupe era metà francese e metà georgiana?
Sì. Possiamo anche dire che era al 100% francese e al 100% georgiana. Una cinquantina di francesi e una cinquantina di georgiani, almeno. Pensavo che avremmo lavorato con una piccola troupe, ma presto le riprese sono diventate più impegnative. Immagino sempre che le cose si possano fare con facilità… e invece tutto si è rivelato complicato: paese, esercito, girare con i bambini, attori non professionisti, quattro lingue sul set: francese, inglese, ceceno e russo…
Quali sono state le difficoltà maggiori che avete dovuto affrontare ?
Essenzialmente problemi logistici legati alle differenti culture in campo lavorativo. In passato la Georgia era lo studio cinematografico dell'URSS, ma il paese non ha le competenze di come si gira un film oggi. Della guerra in Cecenia conoscevo soprattutto le immagini invernali, dai toni grigi, slavati, girate dalla CNN o da dilettanti. Invece in Georgia il tempo è bello fino a novembre. Tutti erano estasiati, eccetto Guillaume Schiffman (il direttore della fotografia) e io. Dovevamo aspettare, cambiare strada per arrivare in un posto dove non ci fosse il sole, usare grandi impalcature per creare ombra… oppure usare un camion per non far vedere che lo sfondo dell'inquadratura era illuminato dal sole.
Il fatto di dover rappresentare la guerra, la morte, la violenza in modo brutale mi ha creato molti problemi come regista. Credo di essere stato sotto pressione perché, per quanto ne so, è il primo film di tali dimensioni su questo conflitto e dunque sentivo di avere una grande responsabilità: quella di raccontare un frammento della storia di un popolo. E poi io non appartengo a quel popolo. Sentivo di non aver nessun margine di errore e questo mette pressione…
Concretamente, quali sono state le sue opzioni come regista per affrontare questi problemi ?
Una delle sfide principali era la combinazione tra la fiction e il «realismo» del film. In ogni caso il suo lato brutale. La scelta di girare in ambienti reali, con attori non professionisti, rispettando la lingua di ogni personaggio, va chiaramente in questa direzione. Dal punto di vista puramente cinematografico, volevo una immagine che fosse abbastanza grezza, ma dettagliata, volevo il contorno dei volti, rispettando la materia e la patina dell'ambiente in cui giravamo. Volevo una vera immagine cinematografica, ma che tenesse conto della rappresentazione che noi ci facciamo di questa guerra: le immagini grigie e slavate dei telegiornali. La scelta di girare con la pellicola e non in digitale si è imposta fin dall'inizio. D'altro canto, per gli interni, ho chiesto a tutti i capi dipartimento di togliere tutto quello che sapeva troppo di "cinema": luci troppo carine, sfondi troppo evidenti, pettinature troppo sofisticate, visi troppo truccati…
Abbiamo fatto molti tentativi prima di arrivare a quella che è l'immagine del film. Durante i test, Guillaume Schiffman e io abbiamo scelto di sviluppare la pellicola senza sbiancarla, un procedimento che era stato già utilizzato per il film Bernie (1996), per ottenere questa texture particolare, questo aspetto grezzo. È un procedimento che richiede una luce molto precisa e, paradossalmente, cercare di ottenere l'impressione che il film non sia "illuminato" richiede ancora più lavoro. Il fatto che io e Guillaume lavoriamo insieme per la quarta volta senza dubbio ha facilitato le cose e lui ha fatto un lavoro notevole. Come sempre.
A livello di decoupage, inquadrature e movimenti di macchina, anche lì ho cercato di rispettare le regole che mi ero fissato. Pochi movimenti, girati quasi interamente con la macchina a spalla, talvolta con scene riprese interamente dalla stessa macchina, come se l'operatore si fosse appena voltato per riprendere un altro personaggio. Ho cercato di avere dei set che apparissero semplici, anche se questo richiede a volte più lavoro del normale. La scena dell'assalto, ad esempio, è un piano sequenza, che forse sembra meno spettacolare di una scena di guerra classica, ma è più vicina al personaggio. In ogni caso è l'effetto che volevo e non è facile da ottenere, anche se appare più semplice quando lo si guarda.
THE SEARCH inizia con immagini video molto dure, quelle dell'esecuzione di una famiglia cecena da parte di soldati russi.
Sì. Ho sempre avuto dei problemi con la rappresentazione "seria" della morte violenta al cinema. Ma per parlare di un conflitto come questo, a un certo punto devi incarnare l'orrore, toccarlo con mano. Una volta è sufficiente, ma quella volta è essenziale. La grana sporca del video, una macchina a spalla, un format che non è ancora quello del film, tutto questo mi sembrava la rappresentazione visiva più giusta. Sono io che ho la macchina da presa, per un piano sequenza che dura per cinque lunghi minuti… Mi piace che cominci nel buio totale, con qualcuno che urla «cazzo, perché non funziona?». Mi piace l'idea di cominciare il film con un insuccesso. E fin dall'inizio indicare una temporalità multipla, perché vediamo due volte la morte dei genitori, nel video e poi nel film.
THE SEARCH è nello stesso tempo un film di guerra e un film drammatico. Ma è anche un film con momenti più leggeri, talvolta comici. Questo non sorprende, conoscendo il suo lavoro, a parte il fatto che la cornice non è quella di una commedia.
Non sono sicuro che siano momenti comici nel vero senso della parola… Nel 2006, a 24 anni, Florent Marcie ha diretto un documentario favoloso, intitolato ITCHKÉRIE KENTI (THE SONS OF ITCHKERIA). Vediamo, in particolare, delle donne che durante un bombardamento parlano delle loro preoccupazioni domestiche, problemi con le finestre… L'ho trovato molto commovente: anche nella situazione peggiore gli esseri umani cercano di far ridere. Ho detto a Florent Marcie che volevo girare una versione di quella scena. Lui ha accettato. C'è sicuramente una rottura, un tocco di comicità in una scena per il resto seria. Ma per me il punto essenziale è mostrare che la nostra umanità continua a esistere, anche nelle situazioni più drammatiche.
In generale le situazioni tragiche (funeralI, rotture…) sono quelle che racchiudono i momenti più buffi. Le persone con il senso del comico hanno quelle che Riad Sattouf chiama «antenne dell'assurdo»: conservano quella distanza necessaria per sapere quando stanno per scivolare nel ridicolo. E quelli che possiedono una coscienza politica imprimono alle loro commedie un tono serio, strutturato. È uno scambio positivo.
Nella scena delle finestre, come faccio spesso nei miei film, gioco con i clichés, in questo caso con i clichés della rappresentazione della guerra. Non volevo un film di scontri armati. Torni rapidamente bambino affascinato dai carri armati e dalle esplosioni e altrettanto rapidamente rischi di sbagliarti su quello che vuoi raccontare. Giocare con i clichés significa restare al confine dell'assurdo. Ho sempre pensato che se vuoi che il tuo lavoro abbia successo è là che bisogna stare: molto vicini all'assurdo, senza mai caderci dentro.
THE SEARCH mescola parecchie storie che si sviluppano in modo parallelo. Come ha lavorato a questa narrazione a più voci?
Cercando di applicare un metodo matematico, ma non troppo. Ogni storia deve avere una coerenza concreta, deve essere logica – lo spettatore ne ha bisogno – e l'insieme deve avere una coerenza emotiva. Esistono delle corrispondenze tra le diverse storie di THE SEARCH, che spero siano forti, in termini di tema e sviluppo. Il percorso del bambino, ad esempio, è l'opposto di quello del soldato. L'uno passa dalla morte alla vita sociale, l'altro dalla vita sociale alla morte. Visivamente, Hadji passa da un mondo di macerie, polvere e rovine a qualcosa di più pulito. Kolia fa il percorso inverso e finisce nel caos e nella distruzione.
La narrazione a più voci permette ellissi enormi… Quando lo spettatore ritrova un personaggio, accetta più facilmente che sia cambiato nell'intervallo di tempo trascorso. È necessario anche creare dinamiche d'insieme, non si può passare improvvisamente dalla quinta alla seconda. Ad esempio era delicato passare dalla violenza della scena con il soldato a quella di Carole e Hadji. Ho capito subito che il realismo della storia con Raïssa, la sorella maggiore, funzionava da camera di decompressione tra le due.
All'interno di una narrazione così complessa, lei ha scelto comunque di inserire parecchie testimonianze.
Mentre scrivevo pensavo che il tema central di THE SEARCH sarebbe stato l'impegno. Poi si è imposto quello della testimonianza: chi racconta? Cosa significa per Hadji raccontare la sua storia? Quando succede un avvenimento, colui che racconta ha il potere. Far cambiare di mano il potere di raccontare, è questa la sfida profonda di THE SEARCH.
Ho raccolto delle testimonianze che ho riscritto e fatto interpretare agli attori. Nel film ne restano tre e penso che diano credibilità all'insieme. Carole è presentata così: ascolta una testimonianza per tre minuti. È un modo per stabilire l'essenziale sul personaggio: Carole non è protagonista degli avvenimenti, è la per registrarli.
Carole, che lavora per una organizzazione non governativa ed è interpretata da Bérénice Bejo, è la sua versione del soldato americano (Montgomery Clift) in THE SEARCH (1948)?
Alla fine di THE SEARCH (1948), quando il soldato non adotta il bambino, lo spettatore non prova pena per lui. Clift è bello come un dio, tornerà negli Stati Uniti… È un uomo, non avrà problemi ad avere un figlio. Per una donna di 35 anni, impegnata politicamente, lontana da casa, adottare un bambino suppone un cambiamento di vita radicale. La situazione mi è sembrata più forte così. Un altro motivo della trasformazione del personaggio da maschile in femminile è che in Cecenia le donne – le giornaliste, quelle che sono membri delle associazioni, le madri dei soldati russi… – sono state spesso più coraggiose degli uomini. Ho voluto che ci fossero vari confronti nel film: Russi/Ceceni, civili/soldati, bambini/ adulti, ma anche uomini/donne. In questo genere di film si trova spesso uno squilibrio che consiste nel far credere che le storie "occidentali", soprattutto americane, sono più interessanti delle storie del posto. Ho un problema morale con questo. La storia di Carole non poteva essere più forte delle altre. Ma affinché questa storia, che si basa su piccole cose, possa essere sullo stesso piano delle altre, è necessario del tempo. Non solo Bérénice ha fatto, come è sua abitudine, un enorme lavoro di analisi e di contestualizzazione del suo ruolo, ma ha anche accettato di interpretare un personaggio che ha molte scene con un bambino e si muove lungo una linea molto contenuta, molto minimale.
Il rapporto tra Carole e Hadji, il bambino ceceno, è in effetti molto sottile: non segue un percorso circoscritto. Ad esempio, non è un rapporto madre/figlio…
Nel rapporto tra Carole e Hadji la questione che si pone è quella del ruolo degli occidentali: quale deve essere il nostro atteggiamento, la nostra empatia? È complesso accettare il dolore degli altri. Hadji non parla la stessa lingua di Carole, non la conosce… Ho voluto che all'inizio Carole fosse riluttante, che chiudesse Hadji in una stanza, senza rendersi conto che ha nove anni, che ha appena perso i genitori… Trovo commoventi le persone che si comportano in modo disinteressato e mi piaceva che Carole fosse così, ma con una sorta di pudore eccessivo che le fa dire parole poco felici, come: «Tu, almeno, non hai problemi con la tua famiglia».
Carole non è coinvolta affettivamente, non ha bambini né fidanzati. Tutto il suo impegno è militante, politico. E quando si rende conto della superficialità di questo impegno, nasce un impegno personale e non più solo intellettuale, ma molto più emotivo.
Il discorso che Carole tiene a Bruxelles, con cui cerca di avvertire i deputati europei della gravità di quello che sta succedendo in Cecenia, è una scena particolarmente importante nel percorso che lei descrive.
Lo abbiamo visto spesso in Frank Capra o nei drammi processuali: attraverso un personaggio il regista rivela se non il suo, il messaggio del film. Ma qui conosciamo la storia: una scena grandiosa per dire che l'Europa non ha fatto niente sarebbe stata grottesca. Carole non riesce a concentrarsi, il livello di ascolto è mediocre, si rende conto che non ci riuscirà. La scena si apre con riprese «ufficiali», in campo lungo. Quando lei inizia a confondersi ci avviciniamo con piani più ravvicinati.
Non è mai facile per un attore tenere un discorso politico, interpretare l'indignazione. Bisogna abbandonarsi, accettare di crederci: ancora una volta il cliché e il ridicolo non sono molto lontani. Bérénice temeva questa scena prima che la girassimo. Le ho detto che non bisognava prenderla troppo sul serio, ma come un incidente, una macchina che si rompe… In questa scena difficile c'è un momento che adoro: Carole alza lo sguardo e ha un sorrisino disincantato quasi impercettibile, come se fosse divertita dal suo fallimento.
Come ha scelto Abdul-Khalim Mamatsuiev e Maxim Emelianov, gli attori che interpretano Hadji, il bambino, e Kolia, il giovane arruolato a forza nell'esercito russo ?
Il direttore del casting, Hervé Jakubowicz, ha visto 400 bambini. Non molti. Dei 50 che ho visto io, Abdul-Khalim era il solo a esprimere veramente la paura, a piangere davvero, a non fare finta… Abdul-Khalim è un bambino sorprendente che ha quella facilità di recitare che tutti gli attori sognano, solo che poiché è un bambino non sa gestirla. È stato necessario a volte armarsi di tanta pazienza.
Per quanto riguarda Kolia, mi avevano sempre parlato dei formidbili attori russi, ma visto il soggetto ho preferito iniziare la mia ricerca in Georgia e in Ucraina. Ma non ero convinto. Abbiamo organizzato un casting in Russia, precisando che il film non era a favore dei Russi. Gli attori si sono presentati assolutamente consapevoli. Ho visto un livello di recitazione eccezionale, in particolare in Maxim. Come la maggior parte degli attori russi, Maxim ha un rapporto diretto con il personaggio e la situazione, non c'è alcuna distanza. Fa impressione quando devono essere picchiati. I Russi non fingono. Ho rivisto le scene in cui Maxim viene schiaffeggiato: all'ottavo ciak era sempre lì, non si era mosso! È sconcertante.
Come ha lavorato alla trasformazione di Kolia in un killer, senza che il personaggio perdesse la simpatia dello spettatore?
Kolia non ha chiesto niente a nessuno. È una vittima che poco a poco viene trasformata in carnefice. Volevo un attore che apparisse come un eroe, non un cattivo, qualcuno di cui si pensa che arriverà a ribellarsi. La suspense del personaggio viene da questo elemento. E inoltre ho avuto la fortuna che esiste una certa somiglianza fisica tra Maxim e Abdul-Khalim. Non è stato affatto calcolato, ma uno potrebbe essere la versione infantile dell'altro. Questo effetto a specchio mi interessava molto perché Hadji, che è una vittime assoluta, si considera colpevole per aver abbandonato il fratellino.
Una scena importante è quella in cui Kolia, cui un commilitone ha ordinato di spogliarsi, si ribella e colpisce l'uomo più volte, guadagnandosi il rispetto dei superiori.
Come si va di male in peggio? Quando non ci sono alternative prevale l'istinto di sopravvivenza. Kolia fa la scelta peggiore, pensando di fare la migliore. Il principio in questo tipo di ambienti – campi, prigioni, unità militari… – consiste nel distruggere tutto ciò che ha un valore sociale, civile. Abolita ogni reticenza, si è obbligati a rovesciare tutto. E rapidamente comincia a piacerti. Il film racconta questa caduta dal positivo al negativo. Voglio precisare che siamo al di sotto della realtà per quanto riguarda l'umiliazione e la disumanizzazione dei soldati. Quello che leggiamo nelle testimonianze è insopportabile. Il film è solo una trasposizione. Il problema di ciò che è insopportabile è un buon problema per il cinema. Come far sopportare allo spettatore qualcosa che deve considerare insopportabile ?
Anche l'incontro al fronte di Kolia con i suoi vecchi carnefici funziona su un'inversione: si salutano come se fossero ottimi amici.
Tutto il percorso di Kolia è così: quando uccide finisce sempre con l'ilarità generale. La scena del palazzo che va a fuoco, l'immagine infernale che il soldato descrive come un paradiso, è stata la mia preferita fin dall'inizio. C'è un altro cliché qui che mi interessava: quello dei commilitoni che sono contenti di rirovarsi, anche al centro di un incubo.
Annette Bening interpreta Helen, che dirige un orfanotrofio per i piccoli rifugiati.
Annette Bening si è documentata a fondo sulla Cecenia e sulla Georgia. È rimasta quindici giorni per le riprese ed era la prima volta che si allontanava così a lungo durante il periodo scolastico: Warren Beatty e lei hanno quattro figli… Annette rappresenta la sinistra americana. Ha dato al suo personaggio qualcosa che va oltre il ruolo, perché non è solo un'attrice di primo livello, è una star. Volendo attirare l'attenzione sulla posizione delle donne, sono stato felice di poterlo fare con lei.
Come ho già detto, il film funziona con effetti a specchio. Helen è la donna che Carole avrebbe potuto o voluto essere. Lei non ha problemi personali, ha dei figli, una vita, è equilibrata, si impegna… Ma non ne volevo fare una Madre Teresa sexy, una specie di Yoda che appare ogni tre scene per dare le chiavi della storia. Helen è un po' stanca, è un essere umano. Adoro quello che Annette ha fatto con il suo personaggio.
E come avete scelto Raïssa ?
Il casting è stato fatto nello stesso periodo di quello per Hadji. Abbiamo visto molte ragazze e, molto semplicemente, lei è sembrata la migliore. Ha un volto che esprime forza, ma nello stesso tempo è una adolescente, con tutti i dubbi e le debolezze tipiche di questa età. All'inizio volevo una ragazza un po' più giovane, ma quando l'ho vista ho pensato che sarebbe stato interessante avere un personaggio più adulto, più forte. E poi lei aveva una motivazione particolare. Prima di scritturarla le ho chiesto – stupidamente – se le sarebbe piaciuto fare l'attrice e lei mi ha risposto no. Pensava che sarebbe stato doloroso, ma qualcuno doveva fare il film e lei voleva farlo. Aveva 17 anni… Sono rimasto colpito.
Non si può che rimanere stupiti da quanto THE SEARCH sia diverso dai suoi film precedenti.
Fino ad ora ho lavorato un po' prendendo qua e là quello che mi interessava per rifarlo, 30 o 90 anni dopo. Imbrogliando, perché io potevo disporre di una prospettiva moderna. Nei miei film precedenti gli spettatori sapevano di assistere a uno spettacolo. Questa è la prima volta in cui non c'è distanza. L'idea non è quella di dire che la guerra è male e che bisogna evitare di morire… Ma che c'è un legame diretto con la storia, con i personaggi, che non passa più per la zona grigia dello scherzo, dove ognuno mette ciò che vuole.
THE ARTIST era un dolcetto. THE SEARCH è un'altra cosa. Non cerca di essere carino. Non ho voluto realizzare un film politico, che parla in maniera drammatica della guerra, dare la mia opinione su qualcosa che va oltre me. Scegliere di fare un film come questo è molto ambizioso, forse pretenzioso. Ma posso farcela. Così come spero di tornare a dirigere commedie, un genere di film che adoro.
Un'altra innovazione di THE SEARCH è la sua durata.
Le serie televisive hanno raggiunto una tale qualità nella scrittura, nella recitazione e nella regia che il cinema è obbligato ad andare da un'altra parte. I film di novanta minuti sono condannati all'allegoria, mentre le serie hanno preso il posto della letteratura: approfondire i personaggi, porli in situazioni complesse senza squilibrare l'insieme… Ho pensato che due ore e mezza fossero una buona durata per parlare di un conflitto che nessuno conosce, da un punto di vista che nessuno, per quanto ne so, ha mai adottato, e con parecchie storie parallele.
Può parlarci della fine del film ?
In un film in cui il bene e il male si confrontano in modo molto brutale, ho voluto portare lo spettatore a pensare che tutti fanno un percorso. Il film ha una posizione chiara, ma non è manicheo. L'ultima scena con Kolia rende le cose più complesse, ma non diventa didattico: si capisce che più che la nascita di un mostro, abbiamo seguito un essere umano. Nascono spesso due problemi con questo genere di film: si vuol fare troppo cinema, senza rispetto per il soggetto, oppure si rispetta talmente il soggetto che ci si dimentica del cinema ed entrambe le cose sono imbarazzanti. Io sono un regista, non uno storico o il portavoce del popolo ceceno. C'è qualcosa di divertente nella scena, un modo per dire agli spettatori: questo è un film.
Inoltre, poiché ci sono parecchie storie parallele, succede che ci siano interessi divergenti. Come in questo caso. È un finale «ironico», non è tutto nero o tutto bianco. Eppure c'è una nota di speranza. Dopo due ore e mezza, a volte faticose, mi è sembrato che fosse il minimo. Ma dal punto di vista morale non potevo dare l'impressione che va tutto bene quello che finisce bene. La morale di THE SEARCH è che se bisogna scegliere tra il percorso di un carnefice e quello di un sopravvissuto, la vita sarà sempre dalla parte dei sopravvissuti.
Intervista a Bérénice Bejo – Carole
Quale è stato il suo primo contatto con il progetto ?
Ho letto una versione della sceneggiatura mentre stavo girando con Asghar Farhadi. Lo script di THE PAST era molto complesso, con molti dialoghi, con scene intensamente drammatiche, e io apparivo in quasi tutte le scene… La prima volta che ho letto THE SEARCH non ho capito l'ampiezza del personaggio di Carole. Pensavo che fosse un personaggio muto. Ho pensato che sarebbe stato facile.
Secondo Michel, io reagisco sempre nello stesso modo quando leggo una sceneggiatura: vedo il film e non il mio personaggio. Poi, rileggendo, mi sono resa conto che Carole parlava sempre, che il bambino non le rispondeva, che avrei avuto parecchie scene al telefono… insomma avrei recitato molto «da sola». Michel mi ha spiegato fin dall'inizio che avremmo girato molte scene in francese, poi in inglese… Improvvisamente il lavoro mi è sembrato enorme. Ecco, mi sono detta, ancora una volta Michel mi ha affidato un ruolo molto complesso.
Come si è documentata per interpretare il suo ruolo?
Ho visto il documentario che Michel ha dato a tutti noi come punto di riferimento per il film, ho letto qualcosa… Michel e io abbiamo alcuni amici ceceni e siamo abbastanza al corrente della situazione che c'è laggiù. Il mio lavoro di ricerca non è andato molto oltre quello che sapevo già. Non ho approfondito. Non ho potuto, né prima delle riprese, né durante. Carole non è una persona che sa. Lei scopre. Ascolta. Credo che sia questo il motivo per cui non ho voluto sapere di più sulla Cecenia di quanto sapessi già, che è un popolo oppresso da un altro.
Sappiamo molto poco di Carole. Lei e Michel avete immaginato la sua storia?
Michel no. Io sì. Avevo bisogno di sapere perché a 35 anni si trovava lì. Perché non aveva figli o un compagno…
Per Michel era importante che Carole restasse sullo sfondo. Quindi dovevo essere umile nell'avvicinarmi alla storia, alle riprese. In genere in questo tipo di storie i personaggi occidentali sono formidabili, impegnati, gentili, vogliono salvare il mondo. Non è questo il caso. Èdifficile interessarsi ai problemi di Carole dopo aver visto un piano sequenza di cinque minuti in cui viene massacrata una famiglia cecena. Soprattutto bisognava evitare storie d'amori infelici, e cercare di bilanciare la sua piccola storia con quella più grande… Ho dovuto accettare che il mio personaggio avesse bisogno di tempo per svilupparsi, accettare che lo spettatore si interessasse a lei a poco a poco, in relazione alle sue azioni. Carole, al contrario di Hadji, non attira subito la simpatia del pubblico. All'inizio lei è come lo spettatore in sala: osserva, è passiva. Poi, lentamente, diventa l'eroina del film, ma quello che amo di lei è che lo diventa suo malgrado. Ha bisogno di tempo per accettare l'arrivo di Hadji, all'inizio non lo vuole. Ma è più forte di lei. Carole si rivela una persona molto sensibile, molto empatica, che inizia ad aprirsi agli altri e perde le sue certezze.
Attraverso quale processo il personaggio di Carole inizia a suscitare interesse ed emozione?
È l'incontro con Hadji che fa sì che Carole si lasci travolgere dalla situazione e diventi un po' più realistica, accettando l'idea che la guerra non è semplice come pensava. Grazie al bambino, cambia. Capisce che forse è più importante occuparsi di Hadji che cercare di salvare tutta la Cecenia. Capisce che forse bisogna iniziare dalle cose più semplici. Credo che il messaggio che Michel vuole inviare attraverso il percorso di Carole sia questo: talvolta bisogna pensare in piccolo per vedere in grande.
Me ne sono resa conto durante la scena al Parlamento Europeo a Bruxelles. Era il mio ultimo giorno di riprese. Non volevo interpretare quella scena! Michel mi aveva detto che era fondamentale per il personaggio, ma io la trovavo lunga e noiosa. E soprattutto ero convinta che non aggiungesse niente al film. Tutto ciò di cui parla Carole, l'abbiamo già visto nel film. Non ne capivo l'utilità. E poi era molto lunga: quattro pagine in francese e poi in inglese. È una delle scene che ho recitato nelle due lingue ! Ma parlando con Michel ho capito le sue intenzioni, ho capito che quella scena segnava la fine del percorso di Carole, l'inizio di una nuova storia per lei, e anche la fine delle sue certezze. Dopo, Carole non sarà più la stessa. Mentre la giravo mi sono sentita spesso sopraffatta dalle emozioni. È buffo anche che la versione francese e quella inglese siano molto diverse. Ho iniziato in inglese a questa versione è più controllata. Nella versione francese Carole è molto più coinvolta.
La scena ricorda quella in cui parla con i suoi colleghi dell'arrivo del 2000. Lei inizia ironizzando sull'interesse che tutti dimostrano per quel tipo di evento, prima di capire che la circostanza ha la sua importanza, non fosse altro in quanto distrae dai problemi della vita.
È vero. Carole arriva con le sue certezze, ma rapidamente la realtà si impone. Non tutto è così semplice. Le convinzioni non sono sufficienti per cambiare il mondo. E malgrado le difficoltà della vita, le piccole gioie semplici sono importanti, necessarie, vitali e permesse! Allora capisce che abbiamo il diritto di essere frivoli, soprattutto in tempo di guerra. Bisogna accettare la vita, la vita è più forte di tutto. È questo che Carole impara nel corso del film. È una scena che amo: all'inizio Carole non capisce i suoi colleghi, ma è intrigata da loro e rapidamente li trova commoventi, pieni di vita, cominciano a piacerle ed è quasi d'accordo con loro. È qui che Carole inizia a cambiare.
Lei è Carole in qualche modo?
Le scene al telefono, quando si innervosisce, la scena davanti ai deputati europei, sì in quei momenti le assomiglio… Mia madre era un'avvocatessa e una attivista, mio padre un regista militante, provengo da una famiglia impegnata politicamente… Ma non mi sarei mai comportata come lei con un bambino come Hadji. Sarei stata subito molto materna. Ho dovuto fare molta attenzione al linguaggio del corpo. Quando hai di fronte un bambino, istintivamente ti chini verso di lui, parli gentilmente, dolcemente. Michel m ha subito messo in guardia: con Hadji dovevo stabilire un rapporto più neutro, più semplice. Mi sono detta che doveva essere un rapporto da uomo a uomo. Mentre mi preparavo al ruolo, pensavo a lui come a un amico della mia stessa età. È così che ho cercato di costruire il mio rapporto con lui. Ho dovuto eliminare tutto ciò che era materno, dolce, accudente. Mi è piaciuto, perché così eliminavo tutto quello che fa parte di me.
Aveva già recitato con un bambino?
Solo un po' in THE PAST, ma davvero molto poco. E Abdul-Khalim non aveva mai recitato. Era difficile creare un legame, perché lui non parla né inglese né francese. Le prime due settimane di riprese sono state dedicate alle scene tra Hadji e Carole, nell'appartamento di lei. È stato abbastanza difficile, non ci conoscevamo. Lui era teso perché era tutto nuovo e ovviamente i tempi erano lunghi e si annoiava. Anch'io ero tesa perché eravamo all'inizio delle riprese, volevo far bene, e voler far bene è una cosa davvero pessima per un attore. Ho dovuto trovare la mia dimensione e accettare gli errori. Ho sempre bisogno di qualche giorno per lasciarmi andare. Vorrei poter tornare al primo giorno di riprese, come faceva Hitchcock. Ma in un certo senso non è andata male: le goffaggini di Carole con Hadji sono anche le mie. E viceversa. Poi, a poco a poco, Abdul-Khalim si è rilassato e ha trovato il suo posto nel gruppo. È un bambino educato e dolce. Tra Michel e lui è nato un rapporto molto particolare, molto forte. Spesso implorava Michel di smettere con una scena, perché l'aveva già fatta 15 volte, lo guardava con i suoi occhi di bambino triste e diceva: «Micheeeeel? Ancora?» E Michel rispondeva, «Sì, ancora». E lui eseguiva, come un bravo soldatino. Era troppo educato per permettersi di dire no. Ha lavorato davvero molto bene. Sono fiera di lui. Non è stata un'esperienza semplice, ma è stata straordinaria, una vera sfida. Qualcosa che non avevo mai fatto. Abdul-Khalim che chiama Michel sul set è per me, ora, una parte integrante della realizzazione del film. Come il «Michel» pronunciato da Brigitte Fossey alla fine di FORBIDDEN GAMES. Resterà con me per sempre.
C'è una scena con Hadji di cui conserva un ricordo particolare ?
Ce ne sono molte. Sono stata colpita dalla sua capacità di entrare in una emozione in pochi secondi. Tutte le scene in cui piange sono state abbastanza facili da girare. Era capace di piangere ogni volta che Michel glielo chiedeva! Era piuttosto sconvolgente stare lì a guardare. Ad esempio, la scena in cui scarabocchia il disegno, ha pianto a calde lacrime ogni volta. E l'abbiamo rifatta almeno dieci volte! Capite che pressione mi metteva! Per Michel era un sollievo, sapeva che almeno quello non era un problema. Per di più adoro la sua testimonianza. La cosa che amo di più di quella scena è ciò che racconta: un bambino che torna alla vita, che accetta il suo passato e va avanti. È magnifico. Piango ogni volta che la vedo, e mi rendo conto che piango quando piange Carole. È una bella scena d'amore, una dichiarazione d'amore per la vita. Mi piace molto quando Hadji parla dei suoi genitori… E quando dice: «Volevo regalarti questi gioielli perché tu mi hai dato tante cose e io invece non ti ho dato niente».
Lei ha recitato con un bambino che non è un attore e con una star, Annette Bening.
Quando è arrivata Annette, il set si è trasformato in un vero set cinematografico. Nel senso che improvvisamente lavoravamo normalmente, come siamo abituati a fare. Ogni attore trovava la sua dimensione, tentava delle cose, si relazionava con il regista e con i compagni di lavoro. Ci è sembrato tutto facile. È stato buffo. Annette ci ha dato dieci giorni di calma. Il potere degli americani! Lei è arrivata, non ha espresso alcuna esigenza, come un'amica che viene a far visita sul set, che non vuole disturbare nessuno, vuole fare bene e diventare il più rapidamente possibile parte del team. Era molto preparata. Aveva letto una quantità di libri e visto tanti documentari da far impallidire tutti, davvero impressionante. Conosceva bene l'argomento ed era fiera di partecipare a questo progetto. Ci ha conquistato tutti. Tutti! L'ho amata e sono orgogliosa di aver recitato al suo fianco.
Lei e Michel vi conoscete molto bene. Come è stato con lei sul set?
In genere Michel fa pochi complimenti. È così con tutti. Quando è contento andiamo avanti. Quando non è contento ricominciamo. Ama giocare, ha uno spirito infantile. Se vede che mi sta annoiando perché stiamo ripetendo e ripetendo, se vede che mi sono offesa, comincia a prendermi in giro e in genere funziona. Mi fa ridere e mi passa tutto. Penso che ce la siamo cavata bene e che la troupe non abbia mai subito il nostro rapporto di coppia. Adoro lavorare con lui. Il suo approccio alla recitazione è legato al ritmo. Ricerca sempre la semplicità. Amo la scena in cui dico a Hadji che è fortunato perché perlomeno non ha il problema della famiglia. Non so quante volte l'abbiamo rifatta per quell'unica frase! Michel mi ha detto di prendermi tempo. Mi ha detto di ascoltare quello che Carole aveva appena detto, di capire insieme a lei che aveva detto una stupidaggine. Di prendermi il tempo di capire che il bambino era solo, di guardarlo e chiedergli semplicemente scusa. Sono indicazioni di regia preziose e piacevoli. La scena è toccante grazie a questi piccoli momenti. Una scena può considerarsi riuscita se il ritmo è giusto. Per me era complicato lasciare a Hadji il tempo di rispondermi. Le scene con Hadji non potevano essere tutte dei monologhi. Anche se si sa dall'inizio che non risponderà, bisogna lasciargli il tempo di farlo. È un esercizio abbastanza complicato. Ci si sente soli. Sei tu che controlli il ritmo della scena. Ed è qui che sono felice di avere Michel accanto, perché so che ha un ottimo senso del ritmo, anche grazie alle commedie che ha girato. So anche che molto bravo al montaggio. Mi fido ciecamente di lui. Faccio quello che mi dice, anche se a volte non capisco cosa sta cercando di ottenere. Questo non mi impedisce di fare le mie considerazioni, ma alla fine fa sempre di testa sua. È divertente. Lui fa così con tutti, produttori, tecnici, attori. Dice sì, poi fa esattamente quello che vuole lui.
È il vostro terzo film insieme. C'è stato qualche elemento nuovo?
La sfida maggiore per Michel era che il film non apparisse falso, che fosse realistico e rispettoso della storia. Diceva spesso che non poteva permettersi di sbagliare perché era una storia vera. Che se il film fosse apparso falso si sarebbe vergognato. Ed è questa paura che lo ha guidato per tutte le riprese. Si poneva il problema del realismo in ogni inquadratura. Era una cosa nuova per lui. Fino a THE SEARCH aveva diretto solo film ambientati in epoche passate. Ad esempio, curava molto le comparse. Temeva il ridicolo. L'assurdo è una delle problematiche principali, in tutti i suoi film. Era sempre attento al realismo, senza comunque sprofondare nel documentario. Questo è prima di tutto un film, un lavoro di fiction.
Anche per me era nuovo. Ero sul set tutti i giorni, anche se ho lavorato solo 30 giorni su 65. Ero lì tutti i giorni come membro della troupe. Era importante per me non tagliarmi fuori dal film, dalla sua realizzazione. Dovevo esserci per Michel, perché era difficile, ma anche per i tecnici, perché ero grata a tutte quelle persone che avevano dato vita al progetto di Michel. Un altro film fatto "in famiglia". Essere sul set tutti i giorni era il mio modo per dire a me stessa che non mi stavo riposando mentre gli altri lavoravano. Non facevo niente di straordinario, mangiavo con la troupe, scattavo fotografie, motivavo la gente, guardavo il monitor, ma credo che questo in qualche modo ci unisse, eravamo sempre insieme. E Michel aveva bisogno che fossi là, che guardassi le riprese, per vedere le mie reazioni… è stato fantastico partecipare al film anche in questo modo.
Intervista a Annette Bening – Helen
Come le è apparso il personaggio di Helen quando ha letto la sceneggiatura ?
Helen mi è sembrata diretta e molto realistica. È con questo aspetto del personaggio che mi sono subito legata. Anche se è un personaggio secondario, Helen è una voce importante, secondo me, all'interno della storia che Michel Hazanavicius ha scelto di costruire per raccontare un conflitto così complesso come la seconda guerra cecena.
Lei è impegnata politicamente. Vede una connessione tra il suo impegno e quello di Helen?
Non c'è nulla di sistematico nel mio impegno. Io mi considero prima di tutto un'attrice, non mi impegno facilmente e non necessariamente ne ricavo soddisfazione. Lo faccio quando è necessario. Mi è piaciuto interpretare una donna con delle convinzioni, una donna che lavora per un'organizzazione così importante come la Croce Rossa Internazionale e che ha un rapporto molto limitato con la politica. Helen ha un grande senso pratico e dei bambini: anche questo conta.
In cosa sono diverse, secondo lei, Carole e Helen ?
Carole è una innocente che non vede chiaramente le forze che la circondano. Dunque è un personaggio perfetto per raccontare la storia. Helen si trova lì da più tempo, capisce meglio la posta in gioco.
Lei ha compiuto molte ricerche sulla Cecenia e la Georgia…
Amo documentarmi per prepararmi a un ruolo. È uno dei piaceri di questo lavoro, poter entrare in un mondo particolare… Tra i libri che ho letto, quelli di Anna Politkovskaïa sono stati particolarmente importanti. Grazie alla propaganda, Putin è riuscito a controllare il modo in cui il conflitto era percepito. La Politkovskaïa è stata uno dei pochi giornalisti che ha corso il rischio di andare sul posto e raccontare la verità. Sappiamo che poi ne ha pagato il prezzo.
Anche altri libri mi hanno aiutato: One Soldier's War in Chechnya di Arkady Babchenko o The Angel of Grozny, scritto da Asne Seierstad, un'altra giornalista che è stata per un periodo in Cecenia e ha raccontato cose incredibili su quello che è successo dopo quella che si supponeva fosse la fine della guerra. Ho avuto anche la fortuna di parlare con una persona della Croce Rossa che aveva lavorato in Cecenia. È un'organizzazione che si sforza di non schierarsi: la sua missione è aiutare tutti quelli che ne hanno bisogno. Sull'aereo per Tbilisi ero seduta accanto a una persona che lavorava per la Croce Rosse nel nord della Georgia. È stato fantastico parlare con lui. Un attore, un'attrice, cercano sempre di andare oltre la natura generale dei problemi per capire la gente, le loro famiglie, come e dove vivono…
Lei è rimasta a Tbilisi più di due settimane…
Sono arrivata prima per non dover iniziare a lavorare appena scesa dall'aereo, ancora con il jet lag da smaltire… La Georgia è un paese magnifico. Ho potuto seguire la campagna per le elezioni presidenziali e davanti al mio albergo c'è stata una grande manifestazione. Sono andata a teatro, ho visitato i dintorni di Tbilisi… È stata un'esperienza fantastica.
Helen ha parecchie scene con Hadji, il piccolo ceceno interpretato da Abdul-Khalim Mamatsuiev. Può parlarci del suo lavoro con lui ?
Abdul-Khalim è un bambino adorabile, un vero birbantello. È stato bellissimo vederlo lavorare con Michel. Quando si fa gli attori da tanto tempo, si prende seriamente il proprio lavoro. Era divertente vedere un bambino che recita per la prima volta fare le boccacce e ridere… Ho imparato mille cose osservando Abdul-Khalim recitare in modo innocente e istintivo.
Helen ha anche parecchie scene con Raïssa, la sorella maggiore di Hadji, interpretata da Zukhra Duishvili.
Zukhra ha un viso straordinario. Dovevo solo osservarla, lasciare che fosse il suo volto a raccontare la storia…. Alcuni giovani attori hanno la capacità di immergersi in un attimo nella realtà della situazione. Zukhra adorava Michel. Abbiamo parlato poco a causa della lingua, ma ricordo che mi ha detto: «Lui è una brava persona».
Bérénice Bejo ci ha parlato dell'immenso piacere che ha provato lavorando con un'attrice come lei, dopo le scene a volte difficili che il suo personaggio, Carole, ha con Hadji.
Michel e Bérénice hanno passato molto tempo a lavorare con gli attori non professionisti del film. Quando Bérénice e io recitavamo insieme, loro in effetti erano sollevati. Abbiamo provato cose diverse, abbiamo sperimentato, diversificato… Bérénice è formidabile nel film.
Conosceva i film precedenti di Michel Hazanavicius, prima di lavorare con lui per THE SEARCH ?
Ovviamente conoscevo THE ARTIST, che è stato girato a Los Angeles. È un film meraviglioso. Quando ho saputo che lo stesso regista preparava un film così diverso sono stata molto colpita. Michel è stato davvero coraggioso a prendersi il tempo per lanciarsi in un progetto simile. Michel è una persona modesta, diretta, è facile comunicare con lui, come con Bérénice. Sono due professionisti che, come me, amano anche divertirsi. Anche nei momenti più seri c'è sempre spazio per una risata. Hanno un grande amore per la vita e una immensa curiosità per il mondo. Anch'io. Abbiamo passato momenti fantastici insieme e per me è stato un piacere poter essere parte di un film così importante.
Intervista a Maxim Emelianov -Kolia
Come è stato scelto per interpretare il ruolo di Kolia?
Una eccellente direttrice del casting, Tatiyana Kliminskaya, ha chiamato il mio agente per dirgli che un regista francese cercava degli attori russi. Allora non sapevamo chi fosse il regista o di che film si trattasse, solo che era un progetto importante. Il casting si è svolto in quattro fasi, e solo alla quarta ho incontrato Michel Hazanavicius. È quasi un miracolo per me poter partecipare a un progetto così ambizioso. Ho avuto l'impressione di fare il primo passo verso il mercato europeo…
Quale è stata la sua reazione quando ha letto la sceneggiatura?
La prima volta che l'ho letta non riuscivo a credere che ciò che raccontava fosse vero. Avevo i miei dubbi. Non credevo che i soldati russi si fossero potuti macchiare di crimini così orrendi. Anche quando ho visto la foto di un soldato che giaceva morto da due settimane, con le ossa che si vedevano… A poco a poco ho capito.
Come definirebbe il suo personaggio?
Kolia è un ragazzo normale che piomba nell'inferno della guerra. Per me, il modo migliore per definirlo è invertire la classica metafora: Kolia non è un bruco che si trasforma in farfalla, ma una farfalla che si trasforma in un bruco. È questo l'effetto che la guerra ha su di lui. All'inizio Kolia è come una farfalla che vola, sa essere felice, momento dopo momento, giorno dopo giorno. Alla fin è il contrario, incapace di provare felicità, si trascina come un verme…
Come si è preparato al suo ruolo?
Ho cercato su internet documenti sulla Cecenia e sull'Afghanistan. Ho cercato di incontrare pesone che avevano vissuto quei conflitti. Mi sono allenato intensamente per due mesi per costruirmi una massa muscolare e ho preso otto chilogrammi. E mi sono immaginato la storia di Kolia: non ne ho parlato con nessuno, ma avevo bisogno di capire chi fosse e perché fa ciò che fa… Per me Kolia è un ragazzo vissuto sempre solo con la madre e oggetto di molte prepotenze… È una situazione sempre più comune in Russia: si trovano dei bambini che nei collegi chiamano l'insegnante "mamma". Io l'ho vissuto, quindi capisco il dolore di Kolia.
Anche lei è cresciuto con sua madre?
Con mia nonna e con mia madre, che lavorava come truccatrice per il cinema. Credo che questo mi abbia aiutato a scegliere una professione, la recitazione, che alcuni considerano ancora femminile. Vivevamo in un piccolo appartamento e mia madre tornava molto tardi la sera, era l'unica che lavorava e portava i soldi a casa. Manteneva anche mio zio, che aveva dieci anni più di me. Non era una situazione facile.
Ne ho visto le conseguenze quando sono entrato nel Theater Institut. Non smettevo di piangere. Mi ricordo che una volta stavamo lavorando a una scena in cui dovevo seppellire una persona che amavo: il mio professore, Vladimir Arkadievitch Erëmin, mi ha preso da parte e mi ha chiesto perché soffrissi tanto. Penso che succeda spesso ai ragazzi che crescono senza un vero modello maschile attorno a loro.
Che ricordo ha del suo lavoro con Michel Hazanavicius?
La sera prima che iniziassero le riprese ero terrorizzato. Non riuscivo a dormire. Non sapevo se sarei riuscito a intendermi con il regista, perché è molto importante per un attore. Ma Michel non è solo un regista formidabile, è anche un uomo molto gentile. In Russia, spesso i registi urlano agli attori. Michel ottiene quello che vuole con altri mezzi. Ho apprezzato anche che si potessero ripetere le scene tante volte. Nei film russi in cui ho lavorato non facevamo mai più di tre ciak di una scena.
Che scena ricorda in particolare?
Non ci sono state scene che ho amato girare più delle altre. Piuttosto, le scene che ho preferito sono state quelle in cui sentivo che stavo diventando Kolia. Penso alla scena in cui il colonnello mi picchia. Può sembrare strano, anche perché mi sono ferito il labbro, ma mi è piaciuto girare quella scena.
Gli attori russi accettano più degli altri di ricevere colpi veri…
Credo che noi russi amiamo più vivere che recitare. Questo non vuol dire che non abbiamo ripetuto gli schiaffi. Abbiamo lavorato molto per renderli naturali. E comunque mi è piaciuto girare le scene in cui vengo picchiato. Mi ci sono abituato.
Un'altra scena importante è quella dell'incontro tra Kolia e Pocket, il tipo che lo perseguitava in caserma. Non ce lo aspettavamo, ma è un incontro felice…
Può sembrare bizzarro, ma sono d'accordo con Michel: credo che Kolia sia davvero felice di ritrovare Pocket. La guerra unisce la gente. Crea dei legami, anche tra un carnefice e la sua vittima, che è stata insultata, picchiata, umiliata… È così: quando si combatte ci si deve sostenere l'uno con l'altro.
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