L'ultima Notte di Amore (2023)
L'ultima Notte di AmoreLa notte prima del suo pensionamento, il tenente di polizia Franco Amore viene chiamato a indagare sulla scena del crimine in cui il suo migliore amico e partner di lunga data Dino è stato ucciso durante una rapina di diamanti. Si capirà che Amore è stato coinvolto nella rapina e che solo l'amore di sua moglie Viviana lo aiuterà a sopravvivere a questa notte fatale.
Di Franco Amore si dice che è Amore di nome e di fatto. Di sé stesso lui racconta che per tutta la vita ha sempre cercato di essere una persona onesta, un poliziotto che in 35 anni di onorata carriera non ha mai sparato a un uomo. Queste sono infatti le parole che Franco ha scritto nel discorso che terrà all’indomani della sua ultima di notte in servizio. Ma quella notte sarà più lunga e difficile di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare. E metterà in pericolo tutto ciò che conta per lui: il lavoro da servitore dello Stato, il grande amore per la moglie Viviana, l’amicizia con il collega Dino, la sua stessa vita. In quella notte, tutto si annoda freneticamente fra le strade di una Milano in cui sembra non arrivare mai la luce.
Info Tecniche e Distribuzione
Uscita al Cinema in Italia: giovedì 9 Marzo 2023Uscita in Italia: 9 Marzo 2023 al Cinema; 13 Giugno 2023 in DVD
Genere: Drammatico
Nazione: Italia - 2023
Durata: 120 minuti
Formato: Colore
Produzione: Indiana Production, Memo Films, Adler Entertainment, Vision Distribution, Sky (in collaborazione con)
Distribuzione: Vision Distribution
Classificazioni per età: ITA: 6+ (MIC)
In HomeVideo: in DVD da martedì 13 Giugno 2023 [scopri DVD e Blu-ray]
Cast e personaggi
Regia: Andrea Di StefanoSceneggiatura: Andrea Di Stefano
Musiche: Santi Pulvirenti
Fotografia: Guido Michelotti
Scenografia: Carmine Guarino
Montaggio: Giogiò Franchini
Costumi: Olivia Bellini
Cast Artistico e Ruoli:
Pierfrancesco Favino
Franco Amore
Linda Caridi
Viviana
Antonio Gerardi
Cosimo
Fifi Wang
Feifei
Pang Bo
Mission
Shi Yang Shi
Chunba
Xu Ruichi
Gang Ma
Wen Mao
Bao Zhang
Camilla Semino Favro
Daria
Produttori:
Francesco Melzi d'Eril (Produttore), Gabriele Moratti (Produttore), Marco Colombo (Produttore), Marco Cohen (Produttore), Benedetto Habib (Produttore), Fabrizio Donvito (Produttore), Daniel Campos Pavoncelli (Produttore), Alessandro Mascheroni (Produttore esecutivo), Marco Morabito (Produttore esecutivo), Piero Maranghi (Produttore esecutivo)
Suono In Presa Diretta: Alessandro Rolla | Aiuto Regia: Miguel Lombardi | Casting: Valentina Materiale | Trucco: Paola Cristofaroni | Acconciature: Manolo Garcia | Organizzatore Generale: Fabio Lombardelli.
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Note di Regia – Andrea di Stefano
“L’Ultima Notte di Amore è una discesa agli inferi di un uomo onesto, un marito devoto, un amico affidabile, un agente ammirato dai suoi colleghi per serietà e devozione alla divisa. Ho sempre immaginato questo film come un film d’altri tempi, sia per fabbricazione che per narrazione, e con l’obiettivo ultimo di raccontare la storia del suo protagonista come una parabola religiosa. Un avvertimento a tutti quelli che pensano di tradire la propria natura per il miraggio di una vita migliore. Le scorciatoie morali non sono per tutti, alcuni riescono a farla franca, persone come Franco Amore non sono tagliati per queste soluzioni avventurose.
Le dinamiche emotive del protagonista mi è sembrato di conoscerle intimamente fin da subito. Ho cominciato ad intervistare agenti delle forze dell’ordine avendo le idee piuttosto chiare su chi fosse Franco Amore. Durante le ricerche ho incontrato di persona quegli esseri umani che sarebbero poi diventati Viviana, Cosimo, Bao Zhang, Tito, Dino… È stato un grande divertimento osservare nella realtà quelli che sarebbero poi diventati i miei protagonisti. Volevo fare un poliziesco realistico ambientato nell’Italia contemporanea, ispirato dall’amore per i film di Kurosawa ed affascinato dai meccanismi tensivi di Hitchcock, ho cominciato a scrivere la sceneggiatura immaginando sempre Franco Amore col volto di Pierfrancesco Favino. Poi, durante uno dei primi giorni di riprese, seduto davanti al combo, tutto è cambiato ed il film è diventato mio. Ammirando l’umanità dello sguardo di Pierfrancesco Favino mentre sorrideva a Viviana, ho finalmente realizzato che avevo scritto un film su mio padre. Quella familiarità che sentivo nei racconti degli agenti che non si sentivano ripagati per i sacrifici fatti, la delusione di andare in pensione da sconfitti, la burocrazia statale che spesso premia solo i più furbi, erano la ripetizione degli stessi dolorosi sfoghi che avevo assorbito da mio padre negli anni della mia adolescenza. Questo film è un omaggio a tutte le persone che ambiscono ad essere persone per bene, come Franco Amore, come mio padre. ”
Intervista ad Andrea di Stefano
Regista Come è nata l’idea di questo film?
La genesi è stata piuttosto semplice, parafrasando Vasco Rossi “i film, a volte, vengono già con le parole” e questo è arrivato piuttosto naturalmente, mentre frequentavo le famiglie di poliziotti e carabinieri per altri miei progetti. Gli agenti di polizia tendono ad andare in pensione molto presto e a ritrovarsi spesso a fine carriera con l’amaro in bocca, sentono di aver fatto sacrifici per lo Stato senza essere stati ripagati pienamente e questa cosa mi commuoveva profondamente. In Italia troppo spesso nel cinema e nelle fiction carabinieri e poliziotti vengono descritti come dei sempliciotti di paese, li si mostra quasi sempre impegnati in operazioni un po’ ridicole, ma la realtà è molto diversa. Ci vuole una certa dose di coraggio e sangue freddo per mettere la pistola nella fondina e cominciare il turno. Tutto questo ripagato con 1.800 Euro al mese. Questo film è stato scritto con l’aiuto di persone che hanno fatto quella vita e vuole raccontare, con il massimo rispetto, le loro debolezze, traumi, sogni e storie d’amore.
Che cosa succede in scena?
Una vicenda ambientata nella Milano di oggi, quella di un tenente della polizia, Franco Amore (Pierfrancesco Favino), che nella sera che precede il suo pensionamento si ritrova a indagare su un omicidio. La vittima è il suo amico Dino, suo partner da diversi anni, rimasto ucciso in una rapina di diamanti. È così che l’ultima notte di Amore si rivelerà essere la più lunga di tutti i suoi anni di servizio. Di Franco Amore si dice che è tale di nome e di fatto. Di sé stesso lui racconta che per tutta la vita ha sempre cercato di essere una persona onesta, un poliziotto che in 35 anni di onorata carriera non ha mai sparato a un uomo. Queste sono infatti le parole che Franco ha scritto nel discorso che si accinge a leggere ai colleghi all’indomani della sua ultima di notte in servizio. Ma quella notte sarà più lunga e difficile di quanto avrebbe mai potuto immaginare e metterà in pericolo tutto ciò che conta per lui: il lavoro da servitore dello Stato, il grande amore per la moglie Viviana, la sua stessa vita. In quella notte tutto si annoda freneticamente fra le strade di una Milano in cui sembra non arrivare mai la luce.
Che cosa le stava a cuore raccontare?
La discesa agli inferi di un uomo semplice e onesto. Discesa agli inferi che coinvolge anche sua moglie. Il film è un omaggio anche alla loro grande storia d’amore. L’arena del film è una rapina di diamanti in cui gli “attori” principali sono persone con il distintivo, quelli che meno ti aspetti. Volevo ribaltare tutti gli stereotipi presentati all’ inizio del film dove anche un imprenditore cinese – e le persone a lui vicine che all’inizio potrebbero esser viste legate alla malavita – in realtà fa il suo lavoro normalmente e si difende ingaggiando una security. Volevo girare un film in 35mm e realizzarlo su una vera autostrada, con le auto che sfrecciavano, evitando di ricostruire tutto al computer, con persone pensanti che mi aiutassero a realizzare una visione che non fosse solo la mia ma anche quella di produttori, scenografi, costumisti e assistenti. È stato un vero kolossal, tutto quello che si vede sullo schermo non è niente rispetto a quello che c’è stato dietro: dovevamo riportare le auto in posizione dopo ogni ciak, mentre altre auto sfrecciavano veloci, c’è stato uno sforzo produttivo piuttosto importante e forse unico. Io ho avuto esperienze anche in America (dove ha diretto “Escobar” con Benicio Del Toro e “The Informer” con Clive Owen ndr) e posso affermare con convinzione che anche lì questo film oggi sarebbe difficile da girare per questioni di costi, assicurazioni e location, se si pensa che Favino correva in autostrada accanto alle auto che andavano a cento all’ora mentre la macchina da presa filmava a 360 gradi.
Le riprese sono state precedute da un lungo periodo di documentazione scrupolosa per sapere cosa raccontare e come nei vari ambienti di Milano.
Sì, quelle che racconto sono tutte situazioni che ho potuto osservare dal vero, è stato importante parlare con vari agenti della Dia e ascoltare il loro punto di vista sul mondo criminale milanese di oggi. È stato molto interessante esplorare l’ambiente della comunità cinese che lavora onestamente in Italia e come spesso sia ostaggio di una criminalità che ha dinamiche completamente diverse dalla nostra. Siamo riusciti a entrare in quella comunità mettendo annunci casting sulle riviste cinesi nella loro lingua e sono arrivate tante persone da tutta Italia per sottoporsi ai provini. C’è stato da parte dei cinesi un entusiasmo che mi ha toccato molto, erano desiderosi di raccontare dei loro personaggi in un film italiano, hanno voglia che si parli di loro realisticamente, anche se nel nostro caso si trattava di una porzione minuscola della loro comunità.
Che rapporto si crea tra Amore e la sua compagna?
Quella tra Franco e Viviana è una grandissima storia d’amore, sono innamoratissimi uno dell’altra: dal momento in cui entra in gioco come protagonista attiva, lei in qualche modo diventa il motore della storia e finisce con il salvare la vita al suo uomo. Volevo costruire il loro rapporto come quello di una qualsiasi coppia di italiani di oggi che possono litigare pur amandosi alla follia e che discutono su dettagli anche stupidi, anche quando si trovano in una situazione complessa. Volevo raccontare due personaggi ordinari catapultati in una situazione straordinaria, infatti il film grazie alla bravura degli attori ha dei momenti quasi da commedia all’italiana.
Perchè ha scelto Pierfrancesco Favino come protagonista del suo film?
Ho pensato da subito a lui e ho scritto il copione immaginando Franco Amore con il suo volto: ci conosciamo da tanto tempo, ma non ci siamo mai frequentati da vicino. L’ho sempre osservato a distanza, ho coltivato nel tempo una profonda ammirazione per quello che faceva e per come lo faceva, per la sua crescita costante e la sua umiltà: per costruire una carriera come la sua, prestigiosa e importante in campo nazionale e internazionale, devi essere una persona intelligente e umile. Favino rappresenta un valore assoluto, è un grandissimo attore che ha la grazia di un James Stewart e l’intensità di un Benicio Del Toro.
Che cosa ha dato in questa occasione al suo personaggio?
“Tutto se stesso, per me è stato fonte inesauribile di ispirazione, sul set gli ho detto scherzando che era la mia musa. Quando mi fido di un attore mi metto molto “in ascolto”, mi piace dirigerlo e aiutarlo, e così parlavamo di tutto, ci scambiavamo opinioni. Si trattava di un film molto ambizioso nella struttura e nella produzione e Pierfrancesco ha avuto una sua presenza importante non solo nella recitazione, mi ha aiutato molto a realizzare il film per come è oggi. La sua ambizione era pari alla mia e ci siamo incontrati lì in alto”.
Quali sono secondo lei le sue qualità principali?
Certe cose ti arrivano dal Cielo, da bambino. È difficile individuare una fonte specifica. Ha lavorato duramente fin da ragazzo, ha compiuto un’importante gavetta, ha imparato varie lingue e ha studiato i dialetti di tutta Italia, credo che per precisione e talento artistico sia un esemplare unico al mondo. A volte durante il montaggio mi sono sentito in colpa perchè magari sul set gli avevo chiesto di girare una certa sequenza in vari modi differenti, ma ogni ciak da visionare mostrava Favino dar vita a tante varianti diverse, tutte ineccepibili, di grande qualità e facilmente utilizzabili. Anche lui vuole provare e riprovare, andare fino in fondo, credo che sul set fossimo entrambi in uno stato di trance agonistica. Il suo personaggio aveva tante sfaccettature e tante qualità e mi piace pensare che chi andrà a vedere questo film possa entrare in contatto con qualcuno che gli sembra di conoscere, perchè tutto quello che Pierfrancesco fa e dice in scena è sottile e preciso. Credo che un “eroe” di questo tipo in un film di genere rappresenti un unicum narrativo, se dovessi immaginare me stesso giovane e vedere soltanto da spettatore tutto quello che lui riesce a fare in questo film sarei incantato, rappresenta una lezione di recitazione per tante generazioni di giovani attori.
Come è arrivato a scegliere Linda Caridi come interprete femminile?
Ho fatto una serie di provini per il ruolo di Viviana e Linda mi ha colpito subito, ha già molta esperienza e un talento incredibile, quando recita ha un’abilità grandiosa nell’improvvisare, prendere la scena e farne altro, sembra Anna Magnani, Silvana Mangano o Monica Vitti. L’ho trovata davvero unica e credo che meriti già un palcoscenico internazionale. Ha una gamma espressiva molto ampia, trasversale, secondo me è l’esempio tangibile di come gli attori italiani vadano presi sul serio. Prima di iniziare a girare abbiamo fatto molte prove piuttosto lunghe, abbiamo preparato il film con tutti gli attori insieme e tutti mi hanno dato la loro massima disponibilità. Siamo arrivati sul set con una certa padronanza della sceneggiatura. Linda ha mostrato una gamma di recitazione molto ampia, ma sappiamo tutti che la recitazione non è una forma di ginnastica, l’attore è una forza di gravità: nel suo caso si restava tutti a guardare rapiti quello che faceva ma era tutto coerente secondo il personaggio e la scena, vederla all’opera per il lavoro fatto era davvero qualcosa di magico.
Perchè ha scelto Francesco Di Leva per il ruolo di Dino?
Anche Francesco Di Leva ha superato brillantemente un provino. Ha un talento unico, senti che è un uomo che porta una storia importante alle spalle, fatta di tanti sacrifici, di una vita avventurosa, ma lui può contare su una scintilla negli occhi luminosa, infantile, molto pura, è come se fosse sempre ispirato e questo gli ha permesso di dare al suo personaggio una nota malinconica e dolente. Durante la fase delle selezioni ho provato ad affiancare a Favino una serie di attori, ma quando è arrivato Di Leva a contatto con lui i due mi hanno colpito molto perchè avevano già lavorato insieme e manifestavano una chimica importante tra loro.
Come entra in scena invece il personaggio di Cosimo interpretato da Antonio Gerardi?
Cosimo rappresenta la Milano degli ultimi anni, con le distanze tra i ricchi e i poveri, gli immigrati e i milanesi doc che si sono molto ravvicinate. È una sorta di businessman arrivato a Milano che ha iniziato la sua scalata sociale verso una ricchezza da self made man, dedicandosi ad affari più e meno onesti. È un cugino calabrese di Vivana, e per Franco Amore avere un parente acquisito collegato ad ambienti malavitosi importanti rappresenta un onere, un peso che prima o poi nella vita dovrà affrontare. A proposito di Antonio Gerardi vorrei sottolineare che si tratta di un vero animale da cinema, ha un carisma alla Joe Pesci, riesce sempre a improvvisare sul momento restando ancorato al personaggio e alla sceneggiatura.
Si tratta secondo lei di una storia che si poteva ambientare solo a Milano o anche altrove?
La vicenda che raccontiamo parla di dinamiche classiche, di un uomo con una debolezza che forse compie un errore che poi si rivela un grande errore. È una storia che in teoria può essere ambientata ovunque, ma mi piaceva l’idea di scegliere Milano, perchè dopo essere stata raccontata benissimo in tanti film nei decenni scorsi, ultimamente mi era sembrata un po’ abbandonata dal nostro cinema. Per quello che mi riguarda, dopo due film diretti all’estero, mi interessava tornare in Italia per raccontare qualcosa che fosse bene “a fuoco”. Brecht diceva: “racconta il tuo giardino di casa e avrai scritto una storia universale” e io volevo dare la giusta importanza ai dialoghi e all’azione e girare un film che non sembrasse recitato, ma improvvisato. Avevo voglia di portare in scena una storia di persone che conoscevo, un po’ per origine un po’ per certe dinamiche che ammiravo profondamente attraverso un tipo di cinema amato fin da quando ero un ragazzo. Parlo dei film della commedia all’italiana e di quelli di Vittorio De Sica dove gli interpreti avevano una loro grande forza narrativa. Ho sempre ammirato il modo di dirigere gli attori di De Sica – ma anche di Petri, Risi, Monicelli, Comencini – nei loro film che erano un mélange di buona scrittura e di fiducia nell’abilità degli attori, che raccontavano una scena in modo realistico creando sempre una particolare magia.
Come mai è voluto tornare ad utilizzare la pellicola in 35mm.?
Fin dall’inizio di questo progetto abbiamo discusso con i produttori Marco Cohen e Francesco Melzi dando vita a una dialettica costruttiva. I produttori vanno convinti della qualità delle proprie scelte, una decisione sbagliata può rovinare un film e così siamo arrivati insieme, in sintonia come dei veri alleati, alla convinzione che fosse meglio girare in pellicola: sono convinto che sia meglio del digitale, anche nelle scelte di regia se usi la pellicola devi essere sempre più sicuro di quello che fai sul set”.
Le sue esperienze passate sui set italiani e su quelli americani in questa occasione si sono fuse positivamente?
Il lavoro del regista è il frutto non solo dei mesi della gestazione di un film, ma anche di tutti gli anni della sua vita passata e vissuta: certamente in questa occasione si sono rivelate utili tutte le mie esperienze, ma l’ambizione di fare un film che fosse curato nei dettagli anche minimi non è qualcosa che si impara in un certo paese, io l’ho sempre avuta. La vera differenza che ho trovato questa volta in Italia, dove sappiamo fare cinema di altissimo livello, è la passione che tutta la squadra che ha lavorato con me ha profuso nel film: erano tutti innamorati del progetto e si sono messi al servizio del film con una passione e una dedizione sorprendenti.
Intervista a Pierfrancesco Favino
Come è nata la sua adesione a questo film?
Conosco da tempo Andrea Di Stefano perché avevo recitato in passato nel film “Il principe di Homburg” di Marco Bellocchio, di cui era stato il protagonista e avevo poi seguito nel tempo il suo percorso artistico, prima come attore e poi come regista. In questa occasione Andrea mi ha contattato mandandomi una sua sceneggiatura, che mi aveva molto colpito per la qualità della scrittura e perché mentre lo leggevo mi coinvolgeva tanto emotivamente e mi appassionava, ero ansioso di vedere come andava a finire. Il modo di vedere il cinema di Andrea mi piace molto, è simile al mio, lo spettatore è sempre messo in primo piano, i film che dirige sono di genere e anche di intrattenimento “alto” e, per quanto riguarda “L’ultima Notte di Amore”, mi è piaciuto il fatto che fosse un noir vero e proprio, un “polar”, un genere che forse noi abbiamo lasciato negli ultimi anni nelle mani di altre cinematografie. Ero felice che nel cinema italiano si potesse tornare a fare un tipo di storie che non si facevano da tempo. Era un film che avrei voluto vedere da spettatore – nelle scelte che compio questa è sempre una condizione essenziale – e mi è piaciuta l’ambizione di Andrea, si trattava di un film che doveva essere ambizioso anche da un punto di vista produttivo altrimenti diventava un tentativo nostrano di copiare gli americani. La sfida era quella di verificare se un genere che siamo abituati a vedere con altri volti e altre uniformi potesse tornare a essere credibile rispetto alla nostra cultura e alla nostra realtà, e credo che questa scommessa alla fine sia stata completamente vinta.
Che cosa le ha interessato di più di questo progetto e del suo personaggio?
Il fatto che il protagonista Franco Amore sia una persona comune, uno di quei poliziotti che possiamo incontrare nei commissariati quando andiamo a rinnovare il passaporto. Non ha niente del supereroe, non è un tipo aggressivo né un esaltato, è un uomo normale che si ritrova in una condizione eccezionale, un uomo onesto, che per tutta la sua esistenza è stato fedele a se stesso, al suo modo di vivere la professione e anche la vita, è ligio alle regole e per questa sua correttezza di fondo viene spesso preso in giro e considerato un “fessacchiotto”. Quando si lascia convincere a fare uno strappo alla regola in qualche modo tradisce se stesso ed è costretto a trovare il modo di uscire dalla valanga che gli si abbatte addosso, ma non ha gli strumenti per farlo, non è abituato a questo. Tutti noi a volte siamo insieme sia orgogliosi delle nostre scelte che frustrati rispetto a quello che gli altri pensano di noi: troppo spesso in Italia la furbizia viene scambiata per intelligenza e considerata una dote, un valore, ma Franco ha sempre fatto il suo dovere, forse racconta a se stesso qualche bugia, ma il suo unico desiderio è quello mantenere l’immagine di sé in cui crede e in cui si riconosce.
Che tipo di approccio c’è stato da parte sua a questo film?
Andrea Di Stefano è un regista molto serio e preciso, non solo nella tecnica, ma anche nella preparazione e nella ricerca delle fonti. Prima delle riprese ha compiuto un importante lavoro di documentazione e in questa occasione ho voluto incontrare da vicino diverse persone che lavorano o hanno lavorato nelle forze dell’ordine: è difficile comprendere dall’esterno quel contesto così particolare senza entrare in contatto con quella realtà e con le vite che conducono poliziotti e carabinieri. Anche se la nostra è una storia di fantasia siamo stati messi in condizione dalla produzione e dalla regia di arrivare sul set pronti e informati. Quando mi trovo su un set non suggerisco mai a un regista il modo di girare una scena, ma cerco sempre di esternare nella fase di lettura di un testo il mio punto di vista sulle motivazioni del personaggio o sui momenti chiave del racconto e con Andrea c’è stato subito un dialogo naturale reciproco, aperto e costruttivo. A questo film ho sempre creduto moltissimo, fin dall’inizio, inoltre cerco sempre di mettermi nei panni del pubblico e, così come piace a me vedere qualcosa di diverso e insolito, mi piace offrire questa possibilità anche agli spettatori. Di Andrea Di Stefano mi piace molto l’ambizione, in Italia spesso pensiamo di giocare un campionato facendo attenzione solo a restare “in zona salvezza”, ma se siamo noi stessi a pensare di valere poco perchè il pubblico dovrebbe pensare che il nostro cinema vale? Noi possiamo benissimo competere, con ragioni fondate, in campo internazionale, ma è necessario fare bene le cose, la gente sta tornando a scegliere quello che vuole vedere, fortunatamente, e noi non dobbiamo deluderla.
C’è stata una costruzione comune del personaggio?
Certo, strada facendo tra me e Di Stefano c’ è stato un grande ascolto reciproco ed è nata una salda complicità, abbiamo avuto un confronto intenso e continuo prima e durante le riprese, abbiamo studiato insieme il copione, ci siamo scambiati costantemente opinioni: dato che quando sei sul set c’è meno tempo per provare noi lo abbiamo fatto a lungo nelle settimane che hanno preceduto il primo ciak. Poi può succedere che ci siano anche momenti di tensione e difficoltà ma io ho creduto e credo moltissimo alla storia che lui ha voluto raccontare e mi sono sentito il primo “cavaliere” di Andrea. Quando sei il protagonista di un film hai la giusta responsabilità di portare acqua al mulino del tuo regista, a maggior ragione se si tratta di una persona che stimi e se sostieni la sua ambizione perché sta facendo un lavoro particolare.
Ricorda qualche momento della lavorazione più difficile o più impegnativo di altri?
Il cuore del film è rappresentato dalle sequenze ambientate di notte su una tangenziale in cui è avvenuta una sparatoria mortale e dal fatto di avere avuto l’opportunità di girare con la pellicola in 35mm. Tra le auto che sfrecciavano, ritrovare quelle dinamiche per cui dovevi ottimizzare i tempi tra l'”azione!” e lo “stop!” per me ha significato tornare a certi momenti particolari di performance che non vedevo da anni. Il raggio d’azione del cuore centrale del film era circoscritto in oltre un kilometro, col campo visivo adeguatamente organizzato per le riprese, avevo visto qualcosa di simile soltanto quando ho recitato sui set americani, si tratta di una parte centrale in cui i movimenti di pensiero e psicologici del protagonista erano estremamente delicati e tenere sempre il filo di quel puzzle ha richiesto per me un forte impegno da un punto di vista mentale, sempre accompagnato però da un’adesione totale ed entusiasta al progetto, ai personaggi e alla storia.
Quali sono secondo lei le qualità principali di Andrea Di Stefano?
Andrea ha una grande capacità nel capire quali sono le storie che possono appassionare e si trova a proprio agio anche all’interno di produzioni complesse e questo ha a che fare con la nitidezza della sua visione. Quello che piace a me di lui è che per quanto ogni tanto possa realizzare certe inquadrature virtuosistiche, non c’ è mai in lui nessun autocompiacimento, lo fa solo per coinvolgere il pubblico e questo è qualcosa di importante e raro. Ha un grande senso della storia, capisce che cosa ti può appassionare, ha grande capacità di scrivere anche attraverso le immagini, non gira mai un’inquadratura fine a se stessa ma lo fa sempre per dire qualcosa in più su quello che sta accadendo. Poi ha un forte gusto per il suono, ha padronanza del set e del campo d’azione. Penso ad esempio alla sua scelta di girare in pellicola e non in digitale: quella notte in cui si svolge il film fotografata in quel modo particolare è la notte di Franco, rappresenta la notte che lui si porta dentro. Si parla di una vita che può andare in una direzione o in un’altra e quei colori, quelle luci, quell’intensità non sono mai un vezzo, ma sono funzionali, rappresentano un preciso segno emotivo.
Quanto hanno inciso secondo lei i due film internazionali diretti da Di Stefano nella sua padronanza del set?
Sicuramente alcuni registi che hanno compiuto un percorso all’estero possono contare su una consapevolezza tecnica più ampia, ma a me è capitato di recitare con registi che non hanno mai lasciato l’Italia che hanno un’estrema padronanza del loro modo di vedere, dovemmo smitizzare alcuni luoghi comuni. Se ci guardiamo intorno negli ultimi tempi vediamo tanti ottimi film che provengono non solo dagli Stati Uniti, ma da tutto il mondo, Italia inclusa. Se siamo noi stessi per primi a pensarci in una condizione secondaria saremo inevitabilmente fermi in quella condizione secondaria. Non esiste un solo cinema o un solo modo di intrattenere le persone, credo che sia evidente che il cinema che arriva oggi dal resto del mondo abbia una maggiore capacità di saper intrattenere, noi magari non possiamo usare tutti quegli effetti speciali e tutto quel denaro di cui dispongono i film americani, ma non è detto che questa loro opportunità in più sia sempre garanzia di qualità, alla fine la differenza la dà la storia che racconti.
Come si è trovato con i suoi compagni di lavoro?
Non avevo mai recitato con Linda Caridi, che si è rivelata una persona molto bella e un’attrice unica, tra noi si è creato subito un rapporto di estrema fiducia reciproca, ho sentito in ogni scena girata insieme di condividere con lei qualcosa di importante, la responsabilità di raccontare l’intensa relazione dei nostri due personaggi. Il cuore di questo film è la storia d’amore tra Franco e Viviana, che sono dall’inizio alla fine indispensabili l’uno per l’altra, si sente che i due si amano tantissimo, nei loro litigi c’è sensualità, nel loro rapporto c’è purezza. Recitare con Linda è stato per me divertente e coinvolgente, c’è stata una qualità di ascolto reciproco che regala momenti di forte emotività. Antonio Gerardi aveva già recitato per qualche giorno con me in “Padre nostro”, un film che avevo anche coprodotto, in cui aveva un ruolo importante. Credo che in questa nuova occasione sia semplicemente perfetto nel ruolo di Cosimo, un personaggio che porta con sé una naturale simpatia ma anche molte ombre. Per quanto riguarda poi Francesco Di Leva dopo aver recitato con lui in “Nostalgia” di Mario Martone e nell’ancora inedito “Adagio” di Stefano Sollima è diventato per me ormai una sorta di fratello minore, nel lavoro e nella vita, ci vogliamo molto bene. Quando Di Stefano cercava l’interprete giusto per il ruolo di Dino attraverso dei provini mi sono permesso di segnalargli Francesco, una persona che stimavo e stimo molto come attore e come essere umano, perchè quel personaggio era qualcuno che ti deve rimanere dentro con la sua umanità profonda. Di Leva è stato usato spesso nel nostro cinema recente per le sue durezze, mentre quando sorride illumina anche chi gli sta davanti. Nel nostro film Franco Amore fa tutto quello che fa perchè ha una fortissima amicizia con Dino da proteggere e quel tipo di relazione fraterna nata nella vita tra me e Di Leva è stata riversata completamente nella storia che stavamo raccontando, abbiamo dato ai nostri due personaggi lo stesso nostro percorso, la stessa familiarità e complicità che si era cementata tra noi due nel corso del tempo.
Che cosa ricorda in particolare del periodo delle riprese?
Milano è una città molto rappresentativa che oggi incarna un’eccellenza e penso che questa città vista di notte, anche nei suoi meandri insoliti, incarni una location perfetta per la nostra storia: è fotografata in maniera molto particolare con la sua architettura, il carattere e la forza delle strade, quel tipo di realtà così urbana e insieme così maestosa, è come se la città fosse un personaggio che osserva in silenzio la storia che raccontiamo. I milanesi che vedranno il film riconosceranno qualcosa che appartiene a loro profondamente, una speciale atmosfera che non era facile da tradurre in immagini. Andrea Di Stefano ci è riuscito, nel suo film si sente che c’è un mondo intorno che va oltre e che ti chiede sempre di essere all’altezza, si vede come un uomo che fatica ad arrivare a fine del mese con quello che guadagna sia fatalmente condizionato dai segnali più vistosi del benessere che lo spingono a inseguirli. Nel film c’è l’idea di una persona che dal Sud decide di andare a vivere in una metropoli che ti chiede di essere sempre all’altezza e ti fa vedere quali potrebbero essere i modi per migliorare la tua vita: è evidente che certe tentazioni possono sollecitare qualcuno ad andare oltre. Tutto questo è vero e realistico per tante realtà, ma l’immagine di Milano è quella di una città che vuole andare avanti, dinamica, volenterosa, operosa, una città in cui il successo è una pedina importante da giocare. Quella tentazione di quest’uomo di dare una svolta alla sua vita e a quella delle persone che ama è universale, ma in una città del genere appare più che credibile e pertinente, quella valvola che fa scoppiare la nostra storia è ampiamente facilitata.
Intervista a Linda Caridi
Come e quando è stata coinvolta in questo progetto?
Il primo passaggio è stato un self tape: due scene non tratte da quello che sarebbe stato il film, ma nelle quali era già molto evidente il carattere di Viviana. Sapevo di essere un po’ troppo giovane per il ruolo, perciò non avevo grandi aspettative. E invece è arrivato il call back e ho incontrato Andrea Di Stefano, insieme alla casting del film, Valentina Materiale. Ho percepito subito che Andrea è un regista a cui piace mettere mano in maniera viva nella materia attoriale, starti vicino col cuore aperto cercando il contatto col tuo, un autore che comunica dall’interno della scena, se non dei personaggi stessi. Quel giorno, prima di salutarci, mi ha detto che avrebbe voluto rivedermi per un ulteriore provino accanto al protagonista del film: Pierfrancesco Favino…è stata una sorpresa, non avevo idea che fosse lui “Francù” e ho capito subito che se fossi arrivata in fondo, quest’impresa si sarebbe rivelata eccezionale. Al provino con Pierfrancesco abbiamo lavorato su un paio di scene, una delle due era uno dei momenti più drammatici del film. La camera era puntata su di me chiaramente, essendo il mio provino, e Picchio era di quinta. Andrea e Valentina a fine scena si dissero commossi. E io riposi convinta “Per forza, Picchio è drammatico pure di schiena! Guarda come comunica con quella spalla di quinta!”. Lo penso davvero, lui “emana”. Per me stargli vicino ha significato recitare accanto a un gigante della rappresentazione umana, capace di restituire una quantità enorme di qualità emotive, vocali, espressive.
Chi è la Viviana che lei interpreta e che cosa le è piaciuto di lei?
Viviana è “una calabrese purosangue”, una donna dal pragmatismo focoso, di sentimento e carica di una vitalità inesauribile. Mi sono innamorata subito di com’era scritta. E subito mi ha connessa con il nerbo di tante donne che fanno parte del mio retroterra familiare, con il loro spirito pungente e caldo, capaci di un amore senza diniego e senza limite, oltre ogni sacrificio. Era la prima volta che mi veniva affidato un ruolo con una tale tridimensionalità, un personaggio che nella sua profondità drammatica conteneva anche un profilo di fine commedia e questa è la scrittura di Andrea, che in tutto il film riesce a raccontare con maestria la complessità della normalità, in tutta la varietà dei tipi umani che popolano la storia.
Viviana è disposta a battersi come un leone per suo marito e per la loro felicità.
Si, lei e Franco sono profondamente innamorati e volevamo che, nel sostrato dell’avvicendarsi degli eventi, arrivasse al pubblico, in modo netto, che fossero sentimentalmente e passionalmente legati. Volevamo raccontare quanto questo legame fosse fortissimo sia per lei, che immaginiamo aver lasciato la Calabria ed essere rimasta per lui nella capitale lombarda, sia per Franco che sacrifica per amore un pezzo di carriera in polizia, dato il seguito familiare in odore di mafia che Viviana si porta appresso. La loro felicità, insieme alla figlia che Franco ha avuto dal precedente matrimonio, è tutto quello che hanno e senza il suo Francù Viviana non può neppure immaginarsi. Per questo non c’è limite a quanto sia disposta a fare per la loro vita insieme.
Che rapporto si è creato con Andrea Di Stefano?
Ho grande ammirazione per Andrea, per il suo talento e per la cura con cui tratta le sue creazioni. Ha continuato ad accudirle fino alla fine, scrivendo stesure su stesure per tante scene, portando i fatti e le battute a una forma che per ogni personaggio fosse sempre più personale e mirata. Nel linguaggio di Viviana, per esempio, c’erano spesso ripetizioni, che io istintivamente tendevo a eliminare, ma Andrea mi ha detto “Fai caso a come parla la gente nella vita, a quante volte ripete una parola in un discorso. Raccontiamo Viviana con la stessa verità”. Si è creato un rapporto di fiducia e ascolto con lui. Sul set è capitato più di una volta che, durante i take delle scene più complesse, restasse a pochi passi dalla scena anziché al monitor, per stare vicino a noi. Quella che raccontiamo è la storia di due persone comuni che cercano disperatamente di dare una svolta straordinaria alla loro esistenza ordinaria e io percepivo Andrea, in questa disperazione, a volte respirava letteralmente insieme a me, per aiutarmi a far scendere il mio respiro nel profondo della pancia. È un regista che non ti risparmia la durezza di una critica, se al momento è necessaria, ma che è capace anche di meravigliose attestazioni di stima e per me tutto questo è stato di grandissimo stimolo e conforto.
Che tipo di relazione si è creata invece con Pierfrancesco Favino?
Io lo avevo incontrato per la prima volta in un’edizione dei Nastri d’Argento di qualche anno fa, in cui mi consegnò il premio Graziella Bonacchi insieme a Luigi Lo Cascio per il film “Ricordi?”. Su quel palco improvvisarono uno scambio comico e ricordo quel momento con emozione e divertimento. Da spettatrice per Pierfrancesco ho molta ammirazione e quando l’ho incontrato per questo film lui si è da subito rapportato a me in maniera accogliente e paritaria, fin dal nostro primo provino insieme e dalle prime letture del copione. La mia emozione nel trovarmi accanto a lui si è normalizzata in fretta grazie al suo modo di essere. Soltanto durante la mia prima notte sulla tangenziale in cui è ambientata una lunga parte del film, c’ è stato un momento in cui mi sono resa conto di quello che mi stava succedendo e mi sono detta “Oddio ma quello è Favino. Sto su set con Favino”. L’ho visto lavorare come un pesce nel suo mare, un animale nel suo habitat naturale. Lui porta con sè la quiete di chi è esattamente nel suo contesto e riesce a trasmetterla costantemente a chi ha intorno. Osservandolo nel lavoro hai l’istantanea percezione di un grande attore che ha sempre il polso della situazione, che conosce nel dettaglio l’operato tecnico del set e protegge se occorre quello artistico, in grado di ripetere ogni scena con grande rigore, ma adattandola volta per volta alle proprie intuizioni interiori e a quelle dei colleghi; senti che tutto quello che fa, lo fa per il bene del film, per fare in modo che ogni singola inquadratura venga portata al massimo del suo potenziale.
L’ha sentito protettivo nei suoi confronti?
È stato sempre un complice creativo, molto generoso nel dare consigli, nel rendere più comica o ficcante una certa battuta o per far sì che la tensione si allentasse e aumentasse la spontaneità espressiva. Ricordo un momento in particolare in cui Franco e Viviana sono fermi in automobile e in pochi istanti si stanno ritrovando e congedando: ci tenevamo per mano e da parte mia c’era una stretta piuttosto forte, poi lui a un certo punto ha allentato la presa mantenendo però il contatto con la mia mano e in questo piccolissimo gesto mi ha comunicato uno spazio per interagire, per dilatare la precisione delle emozioni di quel frammento di racconto. Quel frangente me lo porto dentro come un insegnamento: l’importanza di indugiare, dar respiro, esitare anche in un’istante di violenza espressiva o di tensione, per fare emergere la complessità di un’azione emotiva in tutta la sua pienezza.
Ricorda altri particolari momenti di creatività comune sul set?
C’è una sequenza ambientata in un ascensore in cui Franco e Viviana vanno a far visita a Bao Zhang, l'”imprenditore” cinese, portandogli in dono una parmigiana di melanzane che lei ha preparato, probabilmente svegliandosi all’alba: ci siamo avvicendati in una lunga serie di variazioni sul tema e abbiamo ripetuto la scena forse quasi 30 volte. Era un piccolo spazio che Andrea ci lasciava, per descrivere la relazione amorosa tra i nostri due personaggi. Ripetendoci sempre “Ascoltalo! Ascoltatevi!”, voleva che emergesse dall’interazione tra i nostri due personaggi qualcosa di autentico. Un altro momento difficile da dimenticare è stata la lunga notte in cui abbiamo girato la scena di Viviana alla ricerca di un sacchetto in un canale d’acqua: eravamo a fine maggio, ma era una serata freddissima, io indossavo soltanto minigonna, giacchetta di jeans e una camicetta di seta …mi è costata un principio di pleurite! È indubbiamente stato un set molto faticoso per tutta la troupe, abbiamo girato quasi sempre di notte, in totale asincronia col ritmo naturale della luce e del buio: penso che nelle situazioni di grande fatica condivisa, al netto degli scazzi e delle incomprensioni, ci sia un’intensificazione più rapida della coesione interna alla troupe, che cresce quanto più grandi sono le difficoltà. Vedere tutte quelle persone alle prese con la stanchezza, il sonno e a volte il freddo di quelle lunghissime notti, rendeva ancora più forte il bisogno di dare il massimo e portare a casa il meglio di quanto stavamo girando.
Intervista a Francesco di Leva
Com’è stato coinvolto in questo film?
Sono andato tante volte da Napoli a Milano in treno per incontrare prima soltanto Andrea Di Stefano e in seguito anche Pierfrancesco Favino e fare con loro dei provini, ma dopo il quarto incontro ho chiesto scherzosamente ad Andrea di decidere presto se scritturarmi o no perchè i kilometri stavano diventano troppi. Ho capito subito che con Di Stefano poteva nascere un rapporto di amicizia profondo, simile a quello che si è creato nel tempo tra me e Favino. Sentivo che cercava quella relazione fatta di complicità fraterna creatasi tra me e Pierfrancesco sul set di “Nostalgia” di Mario Martone e del nuovo film di Stefano Sollima ancora inedito, “Adagio”. Il nostro legame di vicinanza e di familiarità sarebbe stato molto utile per la storia, e infatti quando Pierfrancesco è arrivato per affiancarmi nei provini successivi a quelli sostenuti soltanto con Di Stefano si è creato un importante valore aggiunto, grazie a un’affinità non solo artistica ma anche personale tra due persone come noi che continuano a essere molto unite nella vita.
Chi è il Dino che lei interpreta?
Riferisco solo le mie percezioni perchè non ho ancora visto il film pronto, anche se mi arrivano feedback emozionanti. Ricordo che ho lavorato moltissimo sul sorriso di quest’uomo, sul suo essere un padre buono e amorevole nei confronti di suo figlio. Dino è un agente di polizia che ha una sua serenità senza pesantezze, sempre pronto alla battuta e sorridente come sa essere un napoletano in una città come Milano, ho provato a interpretarlo con questa leggerezza. Credo che Di Stefano volesse creare con la morte di Dino una specie di corto circuito nel personaggio di Franco, che a partire da quel momento inizia la sua escalation, si emoziona e si commuove per la sua morte così come avviene anche per il pubblico. Ricordo le notti interminabili a Milano, il gelo sul set della tangenziale in cui giravamo. A mio parere la carta vincente del film è arrivata con la decisione di Di Stefano di girare il suo film in pellicola, il che dà un valore aggiunto all’ intera operazione emotiva e artistica: se usi il digitale come ormai avviene quasi sempre, non riesci a restituire quei colori a quel livello. Senti la pressione di non poter sprecare la pellicola e, come succedeva in passato, ti concentri sulla necessità di fare le prove a lungo e di girare poi solo quello che è necessario. Girare in pellicola ha rappresentato per me un’emozione quasi poetica, questa scelta creava sul set un’energia speciale in più, sentivi il rumore della cinepresa e questa era una vibrazione che abbiamo cercato di riportare in certe scene che sembravano leggere o di routine nella quotidianità di un poliziotto. A un certo punto della storia Franco chiede al suo amico Dino di accompagnarlo come security a scortare due clienti dall’aeroporto a una zona centrale di Milano. Sembra un lavoro di routine, un normale lavoretto extra fatto da due amici, uno dei quali sta per andare in pensione dopo 35 anni di onorato servizio ma succede l’irreparabile. La sensazione che mi sono portato dietro nella parte centrale del film e del personaggio è che, quando Dino moriva, stava lasciando qualcosa nelle mani di Franco. Mentre giravamo sentivo la profonda umanità di quel personaggio e capivo che tutto quello che farà Franco Amore dopo la sparatoria lo farà in nome dell’amico che ha perduto.
Che rapporto si è creato sul set con Andrea Di Stefano?
Andrea è un omone di due metri, i suoi abbracci li abbiamo sentiti tutti, ha “coccolato” l’intera troupe e io mi sono sentito molto protetto da lui, non abbiamo mai avuto nessuna fretta di chiudere una certa scena, ci siamo presi i nostri tempi. Per noi è stato molto importante poter girare con una produzione che non ti condizionava nella tempistica, ma che ti assecondava anche nei momenti scelti per ragionare e riflettere sulle scene, sulle battute e sul modo di dirle. Durante la lettura iniziale del copione abbiamo esaminato in dettaglio le varie scene in una sala prova e poi anche all’interno di un’auto per capire come e quanto salisse la tensione. Già da allora Andrea riusciva a trasmettere a tutti la sua calma, ma anche la sua passione per questo film. La troupe in alcuni momenti era formata da 150 persone, una sorta di formicaio, ma non ci sono mai state tensioni di nessun tipo e per me lavorare in un contesto del genere è stato un privilegio enorme. I produttori Marco Cohen e Francesco Melzi erano quasi sempre insieme a noi sul set, ho sentito da parte loro una forte vicinanza, quando ti ritrovi ad avere un capitano di squadra del calibro di Andrea capisci perchè si riesca a evitare sempre qualsiasi tensione. Il protagonista poi era un gigante come Pierfrancesco Favino, che non crea mai nessuno stress a nessuno, è qualcosa che sembrerebbe normale ma non lo è quasi mai. Andrea e Pierfrancesco sono riusciti a creare un’energia positiva anche per quanto riguarda l’ipotesi di dibattere e di mettersi in discussione. Di Stefano coinvolgeva tutti noi in prima persona offrendoci l’opportunità di un’intensa partecipazione creativa, come dovrebbe fare sempre qualsiasi regista degno di questo nome.
Quali sono a suo parere le doti principali di Favino?
Sembra quasi perfetto, è un artista che si modella in ogni film. Mi ha insegnato tanto perchè è molto generoso, è un attore che sa guardare agli altri, lavora molto in sottrazione, quando recita ti guarda negli occhi e vive il “qui e ora”, non si risparmia mai, si concede e ti concede tantissimo. Un interprete di quel livello potrebbe prendersi tutta la scena per sé, lui invece riesce a regalarti molto spazio. E poi è instancabile: gli ho visto fatto fare ore di trucco senza mai lamentarsi, era il primo ad arrivare sul set e l’ultimo ad andare via perchè doveva struccarsi, questo per me è stato un grande insegnamento. L’ho studiato, mi ha interessato il suo modo di costruire il suo personaggio, il tempo enorme che gli dedica, ho capito che lo crea sul set, ma quella per lui è solo una seconda stesura, prima lavora sul copione per capire cosa fa e come pensa la persona che interpreta, è sempre concentrato, l’ho visto più studiare che divertirsi e uscire con gli amici. Non è un caso che sia un grande attore, questa cosa me la porto nel cuore, mi piace avere quell’atteggiamento come riferimento, lui è stato ed è una fonte di ispirazione rispetto a come si può affrontare questo tipo di lavoro. Mi ha insegnato che sul set si arriva sempre preparati, poi magari non hai ancora le battute pronte, ma devi sapere chi è il tuo personaggio e lui diventa quella cosa lì: anche io provo a farlo, nei miei limiti, ma vedere che lo fa qualcun altro a quei livelli ti rassicura di essere sulla strada giusta. Sul set di questo film ho visto Pierfrancesco diventare Franco Amore, prendere un atteggiamento, portare con sè il personaggio, lasciarlo e poi riprenderlo, dargli la sua umanità e dimostrare con i fatti che il nostro non è solo un lavoro tecnico.
Intervista ad Antonio Gerardi
Come e quando è entrato nel cast di questo film?
Andrea mi aveva già scelto e scritturato prima dell’era del Covid per dirigermi nella serie “Bang Bang baby” a cui poi ha dovuto rinunciare per altri progetti, e quando mi ha richiamato per questo nuovo film sono stato felicissimo: ho scoperto che mi conosce meglio di me, ha saputo prendere bene, capire ed esaltare la mia personalità, mi diceva cose di me che non sapevo e non immaginavo e mi ha sorpreso molto piacevolmente offrendomi la sua totale fiducia. Gode di tutta la mia stima, con lui avrei lavorato anche gratis per dare vita al ruolo di Cosimo, che ha ideato e scritto benissimo. Nonostante Cosimo sia un personaggio negativo ha comunque una sua umanità ed evita sempre il rischio dello stereotipo. Andrea mi mandava dei messaggi anche di notte per cambiare qualcosa e perfezionare tutto al massimo ed è molto bello lavorare in questo modo, non limitarsi a imparare le battute a memoria ma entrare nel cuore di un personaggio.
Chi è il Cosimo che lei interpreta?
È un uomo che sembra qualcosa ma che è tutt’altro, indossa abiti molto costosi, si muove in un limbo ai margini della legalità, a un certo punto tenta un colpaccio che si rivela più grande di lui e, non essendo particolarmente scaltro, si lascia scoprire. “L’ultima notte di Amore” è un film dove la gente sembra qualcuno ma non lo è, il personaggio di Franco interpretato da Pierfrancesco Favino, che sembra il più positivo di tutti, alla fine avrà un risvolto inaspettato, mentre Cosimo che sembrava il più disinvolto e spregiudicato si rivelerà un codardo. Tutto questo serve a far vedere come cambia completamente la tua prospettiva quando vedi la morte in faccia.
Quali sono a suo parere le doti principali di Di Stefano?
È uno di quei registi che coccola gli attori, non è ma duro né drastico, è sempre pronto ad aiutarti se qualcosa non va ed è sempre e comunque sereno perchè ha bene in testa il suo progetto, è deciso e sicuro di quello che vuole, e ti fa provare con calma fino a quando non si ritrova davanti una certa sequenza come l’aveva pensata
Avete avuto la possibilità di creare sul set qualcosa di nuovo oltre il copione?
Sì, la sceneggiatura era scritta benissimo, ma nonostante questo Andrea faceva sempre piccole variazioni, mi diceva che sapeva che poteva chiedermi di più e io sapevo di stare in buone mani, mi fidavo ciecamente e non mi preoccupavo affatto. Avevo visto e apprezzato i suoi film da regista e, strada facendo, mi sono accorto di come avesse bene impresso nella sua mente quello che voleva ottenere e quello che voleva evitare. Allo stesso modo con Pierfrancesco Favino, bastava guardarlo negli occhi, è un attore talmente naturale. Se lavori con campioni di questo livello puoi giocare comodamente in Champions League, con certi fuoriclasse in azione che ti offrono passaggi da manuale viene facile segnare dei goal. Contano l’esperienza e la sensibilità, i grandi non hanno bisogno di sembrare, sono.
Come si è trovato con Favino?
Penso che oggi Pierfrancesco sia in assoluto il migliore attore in circolazione in Italia e tra i primi in Europa. Quell’uomo è una spada, quando reciti con lui non ti sembra di stare su un set, è tutto molto più semplice, senti di giocare in casa, è straordinario, credo di esserne innamorato artisticamente. Quando gli parli capisci perchè è così ineccepibile e inattaccabile: dietro il suo successo e la stima che lo circonda ci sono gavetta, studio, preparazione, abnegazione, sensibilità, ma anche una rara umanità, è attento a te, è uno che se ti parla dieci minuti è capace di prenderti l’anima, è un gigante. Ho firmato il contratto per lavorare in questo film senza aver bisogno di leggere il copione né sapere qualcosa di particolare sull’argomento, mi sono lanciato senza rete perchè mi bastavano soltanto il talento di Pierfrancesco e quello di Andrea. Con loro è stato tutto naturale, pur sapendo che si trattava di un progetto importante hanno fatto in modo che sul set l’aria fosse sempre serena.
dal pressbook del film
Eventi
Presentato al 73esimo Festival Internazionale del Cinema di Berlino nella sezione Berlinale Special Gala.
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info: 9 Marzo 2023 al Cinema; 13 Giugno 2023 in DVD.
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