La crisi di oggi prima che economica è identitaria. È separazione, disorientamento. Le culture europee sono state svendute all'omologazione del consumo e alla corsa alla ricchezza. Ci hanno fatto credere che la liberazione dalla povertà materiale dovesse coincidere con la fuga da se stessi. Vivere oggi di nuovo la povertà senza se stessi è una vertigine insostenibile. Il nostro documentario è un tempo dedicato ad ascoltare l'assenza di noi stessi. È la consapevolezza di vivere in-debito di aria, di senso, di prospettiva. Per farlo abbiamo vagato come flaneur, come viandanti nel luogo simbolo della crisi, la Grecia indebitata: seguendo le parole, i pensieri e la musica dei rebetes, i cantanti del rebetiko, il blues ellenico. Il rebetiko è musica nata dalla disperazione di un'antica crisi (la fuga da Smirne) ed è una delle musiche che hanno costruito l'identità moderna della Grecia, trasportando con sé il dolore dell'esilio e la ribellione alle violenze della storia. È una musica contro il potere, non autorizzata, indebita. I rebetes sono portatori di questa identità, di cui oggi celebrano un funerale pieno di sconfitta, disperata ribellione e silenziosa speranza. I loro concerti e le loro parole riempiono le taverne notturne di Atene e Salonicco, sfiorano le scritte sui muri, ascoltano il mare dei porti e incontrano il cammino di Vinicio Capossela, musicista e viandante che intreccia le sue note con i pensieri del suo diario di viaggio, il tefteri. Così la Grecia diventa l'Europa, la sua crisi la nostra e il rebetiko il canto vivo di un'indebita e disperata speranza.
Info Tecniche e Distribuzione
Uscita al Cinema in Italia: martedì 3 Dicembre 2013Uscita in Italia: 03/12/2013
Genere: Documentario
Nazione: Italia - 2013
Durata: 87 minuti
Formato: Colore
Produzione: Jolefilm, La Cupa, Rai Cinema (in collaborazione con)
Note:
Presentato Fuori Concorso al Festival del Film di Locarno 2013
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"Come viandanti abbiamo vagato nel luogo simbolo della crisi, la Grecia indebitata, seguendo le parole, i pensieri e la musica dei rebetes, i cantanti del rebetiko, il blues ellenico. Una musica nata dalla disperazione di un'antica crisi che ha contribuito a costruire l'identità moderna della Grecia. Una musica contro il potere, non autorizzata, indebita. I rebetes sono portatori di questa identità, di cui oggi celebrano un funerale pieno di sconfitta, disperata ribellione e silenziosa speranza. I loro concerti e le loro parole riempiono le taverne notturne di Atene e Salonicco e incontrano il cammino di Vinicio Capossela, musicista e viandante che intreccia le sue note con i pensieri del suo diario di viaggio." (Andrea Segre)
"Povertà, anche se possiedi delle vittime,
nascondi anime con emozioni".
Vasilis Tsitsanis
Tis ftohias ta kourelia (Gli stracci della povertà), 1952
"I tuoi occhi gelosi mi hanno fatto impazzire
Non ho dato importanza ai lussi, e sono diventato il loro schiavo.
Appassisco, mi sciolgo come una candela.
Mi stai tormentando.
Perché non mi ami?
Ti guardo, ti adoro.
Non volermi male perché impazzirò".
Markos Vamvakaris
Ta ziliarika sou matia (I tuoi occhi gelosi), 1938
"Quelli che diventeranno primi ministri, moriranno tutti
Il popolo gli corre dietro, per tutte le "belle" cose che fanno.
Mi candido per diventare primo ministro
per stare seduto, pigramente,
per mangiare e per bere".
Markos Vamvakaris
O Markos Ipurgos (Osi ginοun prothipοurgi) (Primo Ministro) 1936
Note d'autore – Vinicio Capossela
Sono abituato a scrivere le cose che vedo, salvarle così alla memoria, in una maniera anche "visiva", che fornisca la visione, però che vada completata con la nostra immaginazione, che è in definitiva, il miglior scenografo del mondo. Da molto tempo ho a cuore questa musica, oltre che per la sua bellezza e la sua forza, per la carica eversiva interiore che accende. Mantiene vive le parti anti convenzionali di noi stessi, la fierezza, l'avversione al compromesso. Sbatte contro alla verità senza averne paura. Non è che da coraggio, è che toglie la paura del dolore, ce lo fa amico, compagno, come Francesco diceva della sorella morte corporale. Nel corso di quest'anno si è cominciato molto a parlare di Grecia, in termini di debito, di crisi, un'informazione e un'immagine molto parziale, usata spesso come spauracchio in questo periodo in cui l'unico lavoro serio sulla cosiddetta "crescita" è quello fatto sulla paura della gente. "State buoni che qui perdete tutti i soldi che avete messo da parte, i vostri e quelli dei vostri genitori", un messaggio non molto lontano da quello che in maniera al momento molto più pesante, si sentono ripetere i cittadini Greci. La frase "non siamo mica la Grecia", dovrebbe essere sostituita dalla più Kennediana, "siamo tutti greci", perché in Grecia è in questo momento più scoperto ed evidente il meccanismo economico, sociale, politico in via di sperimentazione in tutti gli altri paesi. Per una volta questo paese sembra essere più avanti su una strada che è la stessa per molti. Mi è venuto quindi il desiderio di informarmi un poco più da vicino, ho fatto qualche viaggio con il registratore e il taccuino, il mio "tefteri", il quadernetto sul quale il negoziante di alimentari si segna la spesa dei suoi clienti, i debiti che contano di saldare a fine mese. E su quello ho segnato diversi debiti e crediti che ho personalmente riguardo a questa musica e a questo paese. I debiti sono sempre gli insegnamenti umani, i crediti quello che si cerca di restituire. Per restituire il credito ho cercato, per quello che è nelle mie possibilità, di destare curiosità sull'informazione e di fare conoscere maggiormente questa musica, il rebetiko, dalla parola turca Rebet, ribelle. Il debito economico forse parla dei conti delle banche centrali, ma la musica parla dei conti delle persone, e questa musica soprattutto. Mi sembra importante che siano le persone a parlare più che i loro rappresentanti. Ora perché queste persone non rimanessero soltanto voci nel mio quadernetto del "tefteri", abbiamo pensato di farne un film che le documentasse, che le facesse conoscere insieme a questa musica che li accompagna, come una colonna sonora lunga ormai una novantina d'anni. Perciò ho chiesto ad Andrea Segre, che in queste cose ha già dato prova di grande maestria, di dare una forma a queste storie, di dare un volto alle persone e alla musica. Ne sono uscite riflessioni sull'identità, nel momento della crisi del consumo, che hanno un carattere esemplare. Parlano in qualche modo di tutti. Ho cercato di infilarmi tra queste storie come nella vita, da viandante, cercando tra il frastuono contemporaneo qualche frequenza dell'antichità, qualche voce di mangas, qualche spettro, qualche indicazione, accompagnato dal minuscolo strumento che i rebetes nascondevano in prigione, il baglamas, usato come una specie di forcina da rabdomante, confidando sullo sguardo esperto di Luca Bigazzi, di Andrea, del lungo microfono del fonico e della piccola compagnia di ventura con la quale ci siamo avventurati per un paio di settimane tra le strade di Atene, di Salonicco, delle isole di Creta e di Ikaria. Tutto questo per cercare di pareggiare la voce credito a quella debito nel libretto del "tefteri", che una volta aperto diventa di chi ci guarda dentro. A quel punto si diventa tutti responsabili, o come diceva De André, si è tutti coinvolti. Perché, per usare le parole di Georgos Mistakidis, uno dei nostri "intervistati", la vera scelta politica oggi non è suonare Rebetiko, ma ascoltarlo.
Note d'autore – Andrea Segre
A volte sembra che manchi il respiro. Che il tempo e lo spazio non abbiano luogo, speranza. Ci hanno travolto, dicono che "ora forse tutto così non può nemmeno un po'…" E ti svegli la mattina, cerchi di capire se c'è qualcosa, qualcuno a cui chiedere. Eri convinto che la fatica fosse finita, che la strada potesse essere facile. I tuoi nonni, i tuoi padri, le case, gli stipendi, le auto metallizzate, fino alla porta USB dell'autoradio. Tutto era a posto. Che posto? Ti svegli alla mattina e quel posto non è più. Che posto? C'è qualcosa che manca, qualcosa che non vibra. Pensavi di non aver bisogno di tremare. Pensavi che la domenica al parco e al cinema fosse dovuta. Che la settimana bianca fosse corretta. Che il silenzio fosse necessario solo per sentirsi sicuri. Erano il salotto e il lettore dvd che avevano il compito di funzionare. Non io. E ora invece dicono che tutto sta scivolando. E ancor peggio succede che davvero scivola. Non è che non c'è lavoro, è che non c'è nemmeno l'idea di dove cercarlo. Perché?! C'entrano qualcosa le idee e il lavoro? Mi pagavano, mi pagavano sempre meglio e io consumavo. Cos'altro mi deve preoccupare? Il colore della camicia o i decibel dello stereo. Ma no, io dovevo fare jogging e respirare bene prima di riprendere lo scooter. Si, lo scooter, non il motorino. Perché il tablet non ha bisogno di suonare, vibra. Ed io? Perché ora voglio vibrare anch'io? Cosa manca? Ma non è giusto, non doveva mancarmi più nulla. E invece ora inizia a mancare tutto. E la noia striscia umida tra le ossa della vita omologata. Il silenzio ha di nuovo bisogno del suo significato. Altrimenti scivolare sarà non solo inevitabile, ma anche lentamente pesante. E quando sei pesante scivoli di più, scivoli peggio. E non sai cosa stringere per fermarti. Poi d'un tratto mi guardo le mani. Le mani hanno le rughe, conservano i segni. Sarebbe meglio avere il coraggio di poterle sporcare. Me lo disse un giorno un amico, un amico vero: "il manicure è l'ultimo stadio della civiltà". Perché ad un certo punto abbiamo voluto diventare tutti ricchi? Perché non abbiamo capito che la liberazione dalla povertà passava per la celebrazione della sua dignità? Perché ci siamo fatti rubare l'umanità del vivere semplice? Perché abbiamo concesso al sogno arido dell'accumulo di sostituire le emozioni della terra, dell'aria? Mi guardo le mani. Non sanno più contenere il dolore, esprimerlo, rappresentarlo. Battono sui tasti del computer e scivolano sulla pelle del volante. Coperte dai guanti d'inverno, accarezzate dai cuscini dei divani. E allora provo ad ascoltare, a respirare. Vibrare, nel silenzio di una musica o nel sogno di una fuga. C'era qualcosa che sapevamo fare? Di notte, con l'odore del legno o il buio della città. Nello scricchiolare dei passi sul selciato, nel coraggio della solitudine. Nel respiro di un figlio, nell'odore del mare e del gasolio di quella grande nave. Lenta. Nel pane, nel formaggio di capra e il vino aspro. Nei piedi scalzi che rincorrono un filo d'erba e di futuro. Senza l'ansia di riempire, di rifugiarsi nell'identico e nella sua acquistabile copia. Vibrare, questo ora d'improvviso posso ancora fare. Per amare. Per vivere. Perché in questa società svenduta e indebitata, l'unico profondo debito è quello con il coraggio di esistere. Siamo indebito di vita.
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