La Vita Invisibile di Eurídice Gusmao (2019)
A Vida Invisível de Eurídice GusmaoRio de Janeiro, 1950. Nella famiglia conservatrice Gusmão, Eurídice, 18, e Guida, 20, sono due sorelle inseparabili che trovano l'una nell'altra uno spazio sicuro per le loro speranze e aspirazioni. Mentre Guida vede nella sorella una preziosa confidente per le sue avventure amorose, Eurídice trova nella vivace sorella maggiore l'incoraggiamento di cui ha bisogno per perseguire il suo sogno di diventare una pianista professionista. Un giorno, stanca di vivere sotto le rigide regole del padre Manoel, Guida intraprende un'impetuosa storia d'amore con un marinaio e decide di seguirlo in Grecia. Quando mesi dopo Guida torna a casa single e incinta, Manoel la bandisce brutalmente da casa e le dice che Eurídice è partita per studiare musica a Vienna e non vuole avere ulteriori contatti con lei. Per proteggere l'onore della sua famiglia, Manoel tiene Eurídice, ora sposata, all'oscuro del ritorno di Guida impedendo ogni contatto tra loro. Guida e Eurídice cercano di prendere il controllo dei loro destini separati, senza mai rinunciare alla speranza di potersi ritrovare. Mentre Guida combatte ogni giorno per vivere una vita dignitosa come madre single, Eurídice lotta per essere sia la perfetta casalinga, sia una musicista professionista. Senza l'appoggio reciproco, le sorelle dovranno trovare da sole la forza di superare gli ostacoli che impediscono loro di diventare le donne che avrebbero potuto essere. Tra le difficoltà quotidiane, la più grande battaglia è contro il destino che le ha separate. Si ritroveranno in tempo per superare l'oppressione che tenta di soffocarle?
Info Tecniche e Distribuzione
Prima Uscita: November 2019 (Brasile)Genere: Drammatico
Nazione: Brasile - 2019
Durata: 139 minuti
Formato: Colore
Produzione: Canal Brasil, Pola Pandora Filmproduktions, RT Features, Sony Pictures Releasing
Distribuzione: Officine Ubu
Box Office: Italia: 248.390 euro
Note:
Premio Miglior Film Un Certain Regard al 72esimo Festival di Cannes.
Soggetto:
Tratto dal romanzo omonimo di Martha Batalha edito in Italia da Feltrinelli.
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NOTE DI REGIA
La vita invisibile di Eurídice Gusmão si ispira a "La vita invisibile di Eurídice Gusmão", romanzo del 2015 di Martha Batalha. Sono stato profondamente commosso dalla lettura del libro. Ha innescato vividi ricordi della mia vita. Sono cresciuto nel Nord-Est del Brasile conservatore degli anni '60, in una famiglia composta in maggioranza da donne – una famiglia matriarcale in un contesto iper-machista. Gli uomini erano spariti o spesso assenti. In una cultura patriarcale, ho avuto la grande possibilità di far parte di una famiglia in cui le donne avevano i ruoli principali. Ciò che mi ha spinto ad adattare La vita invisibile di Eurídice Gusmão, era il desiderio di rendere visibili molte vite invisibili, come quelle di mia madre, mia nonna, le mie zie e tante altre donne di quel tempo. Le loro storie non sono state raccontate abbastanza, né nei romanzi, nei libri di storia né nel cinema. Come reagiva una donna negli anni '50 quando aveva il suo primo rapporto sessuale con il marito? Com'era non voler rimanere incinta prima dell'avvento dei contraccettivi? Come poteva una madre single crescere un bambino in un ambiente che la escludeva in un modo così brutale? Non possiamo dare per scontate queste domande. La sfida consisteva nell'affrontarle da un punto di vista intimo – ed è questo che il romanzo fa con tanta intelligenza. Il melodramma è stato diluito e reso precario dalla televisione brasiliana con le telenovele. Tuttavia, questi show vengono seguiti da milioni di spettatori ogni giorno, dimostrando che il melodramma ha un forte potenziale comunicativo. Qui ho cercato di celebrare il melodramma come una strategia estetica radicale per delineare una critica sociale dei nostri tempi, visivamente splendida e tragica, grandiosa e cruda. Volevo creare una storia che facesse luce su un capitolo invisibile della storia delle donne. Ero intenzionato a raccontare una storia di solidarietà, una storia che sottolineasse il fatto che siamo molto più forti insieme di quanto lo siamo da soli, indipendentemente da quanto potremmo essere diversi. Con La vita invisibile di Eurídice Gusmão, ho immaginato un film con colori molto saturi, con l'obbiettivo molto vicino ai personaggi, che palpitasse con loro. Ho immaginato un film pieno di sensualità, di musica, di dramma, lacrime, sudore e mascara, ma anche un film gravido di crudeltà, violenza e sesso; un film che non ha paura di essere sentimentale, più grande della vita stessa – un film che battesse con i cuori delle mie due amate protagoniste: Guida ed Eurídice.
INTERVISTA A KARIM AÏNOUZ
Da dove hai tratto l'ispirazione per iniziare a lavorare su questo film?
È iniziato da qualcosa di personale. Ho perso mia madre nel 2015. Aveva 85 anni. Era una madre single e non è mai stato facile per lei. Sentivo che la sua storia e le storie di molte donne della sua generazione non erano state raccontate abbastanza – erano in qualche modo invisibili. Fu in quel momento che il mio produttore e amico Rodrigo Teixeira mi diede il manoscritto di "La vita invisibile di Eurídice Gusmão". L'ho letto e mi sono subito sentito molto vicino alla storia. I personaggi mi hanno ricordato molto mia madre e sua sorella, e anche molte altre donne della mia famiglia. Era anche come tornare al mio primo film, che era un ritratto di mia nonna e delle sue quattro sorelle. Era una storia che celebrava queste donne, un documentario sulle loro gioie e il loro dolore, e sulla solidarietà tra loro. Sentivo che era tempo di ritrarle di nuovo, ma questa volta non con un registro documentaristico ma sotto forma di melodramma. Avevo sempre desiderato creare un melodramma che potesse essere rilevante per i nostri tempi. Come potevo interagire con quel genere ma renderlo, in qualche modo, contemporaneo? È così che mi sono buttato nell'avventura di realizzare questo film. E come avrei adattato un'opera così colorata, emozionante e grandiosa? Come avrei sfruttato questo genere ma alle mie condizioni? Volevo fare un melodramma tropicale.
Ci puoi descrivere il tuo metodo di lavoro e l'atmosfera del set?
Non so se questo possa essere definito un metodo di lavoro, ma alcuni processi si escogitano solo dopo aver realizzato alcuni film. Uno di questi ha a che fare con la mia routine sul set. La prima cosa che mi è venuta in mente è la mia ossessione di arrivare presto sul set e di stare lì da solo a capire, immaginare la scena e percepire lo spazio prima che arrivino tutti. Questi momenti passati da solo sul set sono stati spesso fondamentali per me per andare avanti e guidare i lavori, con precisione. Un'altra cosa che mi viene in mente è il fatto che mi piace chiamare gli attori con i nomi dei personaggi. Aiuta a creare una certa magia e mi permette di immergermi nel film e mantenere un senso di isolamento dal mondo "reale" là fuori – come se ci fossimo solo io e i miei personaggi e nessun altro. L'uso dei telefoni cellulari è assolutamente vietato dall'inizio alla fine della giornata. Chiediamo a tutti i membri della troupe e del cast di spegnere i telefoni – solo la produzione può utilizzarli. Rompono l'incantesimo e distolgono la concentrazione. E parlando di concentrazione, questo era il marchio di fabbrica del lavoro con la direttrice della fotografia Helen Louvart. Era la prima volta collaboravamo ed è stato uno scambio meraviglioso.
Cosa puoi dirci dei tuoi attori?
Ho lavorato con un meraviglioso gruppo di attrici e attori. Erano tutti molto diversi, da generazioni diverse, diversi registri di recitazione – e la sfida era ottenere lo stesso tono, le stesse vibrazioni. Mi ci è voluto molto tempo per trovarli, ma una volta fatto, abbiamo iniziato a provare come un ensemble teatrale. Inizialmente non abbiamo provato le scene ma quello che succedeva prima e dopo. È stato molto fisico. E poi improvvisammo le scene. Prendevo appunti e guidavo i dialoghi di conseguenza. È stata un'esperienza molto forte, non solo durante la preparazione ma anche sul set. Devi stare all'erta e correggere gli errori, devi essere molto presente e attento a tutto ciò che gli attori fanno, a ciò che propongono e per questo devi essere preciso e scegliere cosa è giusto mettere in scena. Devi essere lì con loro e solo con loro. Le mie due attrici protagoniste, Julia Stockler e Carol Duarte, erano giovani, piene di energia e molto aperte al rischio, a nuove sperimentazioni e a diversi modi di recitare una scena. Parto sempre senza avere un'idea precisa e poi provando le cose riesco ad ottenere il giusto tono – è un lavoro di ricerca, basato sul non sapere e sull'improvvisazione. Ho anche avuto l'incredibile opportunità di lavorare con una delle più brillanti, o forse la più brillante attrice brasiliana di tutti i tempi, Fernanda Montenegro. Non è stato solo un sogno diventato realtà, ma anche un'esperienza di apprendimento meravigliosa e una sfida. Fernanda ha 90 anni ma ha più energia di qualunque altra diciottenne. È stato molto divertente lavorare con lei – non ha mai avuto paura e cercava sempre di sperimentare cose nuove. Ma suppongo, in breve, che si tratti solo di fiducia e sperimentazione e di seguire la propria intuizione sul tono e sul ritmo della recitazione. Dobbiamo fidarci l'un l'altro, gli attori e io, mentre percorriamo un viaggio esplorativo. È come comporre musica, credo.
Cosa hai imparato durante la realizzazione di questo film?
Ogni film è per me una nuova esperienza di apprendimento, una nuova avventura, come una storia d'amore. Penso che sia fondamentale essere aperti e capire che con ogni film stai imparando qualcosa di nuovo. È fondamentale non sentirti di troppo. Penso che per me la più grande lezione su questo film sia stata quella di fare pace con la narrativa. Ho sempre avuto una relazione molto conflittuale con la narrazione. Sono stato attratto da essa come spettatore ma ero anche incerto come scrittore. Spesso mi stava addosso come una camicia di forza. Avvertivo le sue regole e i suoi parametri come una forma di addomesticamento – come se la nostra immaginazione fosse più selvaggia e astratta della storia. E mi sento ancora così. Ma qui ho deciso di interagire con un formato classico e di provare a stimolarlo dall'interno. Volevo rispettarlo, ma anche inebriarlo un po' con la musica, il colore, con un approccio non naturalistico alla recitazione e allo spettacolo. Non devi sottostare alla narrazione. Anche se decidi di accettarla, devi sempre metterla in discussione. Come potrei sedurre il pubblico attraverso la storia, attraverso una narrativa quasi epica e al tempo stesso evitare le trappole della prevedibilità? Volevo immergermi in un mondo reale ma anche artificiale, eccessivo. Queste erano le principali sfide con questo film. Sono state nuove sfide per me e ho imparato una quantità incredibile di cose durante il processo di creazione – è stata una grande soddisfazione. Quando lavori con il melodramma, c'è sempre un certo grado di manipolazione dei sentimenti e delle sensazioni degli spettatori; c'è il desiderio di emozionarli, farli piangere e farli relazionare ai personaggi in modo viscerale – e farlo è sempre delicato. È una linea sottile.
Cosa ti ha ispirato a diventare un regista? Quali sono state le fonti della tua ispirazione?
All'inizio non avevo mai pensato di diventare regista. Non era affatto un progetto all'orizzonte soprattutto per una questione finanziaria, nonostante mi piacesse andare al cinema. Sono cresciuto ai tempi della dittatura militare in Brasile e quando ero adolescente pensavo di dover fare qualcosa di pratico, sia per guadagnarmi da vivere che per resistere in quel clima politico opprimente. Il cinema a quel punto non era la mia prima opzione. Mi sono laureato in architettura e ho lavorato come urbanista per un po', ma in qualche modo mi è sembrato tutto troppo burocratico. È stato bello, ma ci volevano anni per realizzare qualcosa. Ero giovane e molto impaziente (lo sono ancora). Ho iniziato a fare fotografie e video in Super 8 – era un modo per esprimermi più velocemente. Avevo 22 anni. Avrei tanto voluto fare il pittore ma non avevo talento per questo. E poi ho realizzato alcuni film sperimentali, cortometraggi, saggi, piccoli documentari. Ho girato molto su VHS, in Super 8 – tutto era fatto in casa e senza budget. E poi ho realizzato un ritratto di mia nonna materna che piacque molto, sembrava davvero toccare le persone nel profondo. Sembrava avere un'importanza artistica, un impatto sulle persone – e questo mi faceva stare bene. Ricordo di aver visto un cortometraggio di Todd Haynes intitolato Superstar. Era il 1988 a New York, in un piccolo cinema chiamato Millennium. Sono rimasto a bocca aperta. Era tutto realizzato con bambole Barbie e filmati d'archivio, ed era brillante e sexy e non era costato molto. Quindi ho pensato che forse avrei potuto provare a fare film. Quel film è stato così fondamentale per me. Era così crudo, artigianale e potente. Ricordo di aver visto, nello stesso periodo, un film degli anni '70, Iracema – Uma Transa Amazonica (1975) di Jorge Bodansky, che funzionava benissimo rimanendo al confine tra documentario, finzione e improvvisazione. Anche quel film mi ha impressionato enormemente. Compresi lentamente il potere del cinema e dell'effetto che i film potevano avere sul mondo, Fare film non è mai stato mei piani, ma è diventato un'ossessione. E ha smesso di sembrare così lontano dal mio orizzonte. Ma da allora, più di due decenni fa, non riesco più a smettere. Non sapevo che fare film avrebbe richiesto molto più tempo rispetto ai progetti di pianificazione urbana.
Cosa ne pensi dello stato dell'industria cinematografica del tuo paese?
Per circa 15 anni, dal primo mandato di Lula (Il nostro più grande presidente di sempre!), l'industria cinematografica brasiliana ha subito grandi cambiamenti – è sbocciata come mai prima d'ora. E ho avuto la grande opportunità di far parte di quel rinascimento. Ma quel momento sembra essersi fermato. Stiamo attraversando un momento molto critico, per non dire tragico, nella storia dell'industria cinematografica brasiliana. È una sfortunata coincidenza che il giorno in cui il nostro film e un altro film brasiliano sono stati invitati nelle Selezione Ufficiale del Festival di Cannes, tutte le attività dell'Agenzia Cinematografica Nazionale (ANCINE) siano state sospese. È anche la prima volta in due decenni in cui i fil brasiliani sono invitati a partecipare a un festival di serie A senza essere menzionati in nessuno dei media ufficiali del governo. Come se non fosse successo. Stiamo subendo un colpo mortale all'industria e al cinema. Manteniamo la speranza e stiamo lottando per ripristinare la situazione, ma siamo di fronte all'enorme pericolo della rapida implosione del settore. Tuttavia, non sorprende visto che il governo eletto recentemente ha trattato la cultura e il sostegno pubblico della cultura nel peggior modo possibile. Ma invece di lamentarmi solo del modo violento in cui veniamo trattati come promotori culturali, preferisco guardare al futuro e lottare per questo, con il sangue negli occhi. Il fatto che quest'anno abbiamo tre film in rappresentanza del Brasile a Cannes, uno dei quali è il primo film di una meravigliosa regista, Alice Furtado, è la prova concreta che le politiche pubbliche a supporto del cinema, sviluppate negli anni passati sotto i precedenti governi, sono state un enorme successo e se le cose prenderanno un piega sbagliata saremo testimoni di una grande perdita culturale. E il mondo dovrebbe stare attento. Abbiamo bisogno della solidarietà di paesi come la Francia, dove il cinema è un patrimonio nazionale, per continuare a far cinema e resistere all'estinzione.
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