Dracula, la rivisitazione BBC non convince
'Dracula' è la nuova trasposizione per il piccolo schermo del romanzo di Bram Stoker, portato alla BBC da Steven Moffat e Mark Gatiss, già autore di Sherlock
di Erika Pomella / 15.01.2020
Quando sono cominciate a circolare le prime notizie riguardo un nuovo adattamento del classico Dracula firmato da Bram Stoker per mano dei creatori di Sherlock l'hype degli spettatori è schizzato subito alle stelle. La rivisitazione in chiave moderna del classico di Sir Arthur Conan Doyle con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman aveva dato prova di come Mark Gatiss e Steven Moffat avessero le capacità per prendere un cult che sembrava intoccabile e portarlo a nuova vita. Perciò le aspettative del pubblico sembravano di certo ben riposte, specie quando fu condiviso il primo teaser e il primo trailer, in cui sembrava che l'allure e l'atmosfera descritta da Bram Stoker nel suo capolavoro riportato a una nuova veste da Oscar Vault. Soprattutto il protagonista Claes Bang sembrava perfettamente in linea con il personaggio del conte più famoso della Transilvania.
Prima di arrivare però a parlare della serie in sé bisogna fare un passo indietro, perché è importante comprendere al meglio delle nostre possibilità il materiale di partenza, prima di arrivare a descriverne l'ennesima trasposizione sullo schermo. Questo perché Dracula non è semplicemente un libro scritto da un irlandese sul finire dell'Ottocento diventato poi un classico in riferimento all'epoca vittoriana. Tutte informazioni più che corrette, ma c'è un motivo per cui Dracula ha superato gli oceani del tempo. Prima di tutto Dracula è un romanzo horror in cui il "mostro" è sempre suggerito da altri: un tema che renderà grandi le prime produzioni della Hammer al cinema, dove il male era solo suggerito, una presenza al limite del quadro, costante e perenne, ma che lasciava allo spettatore il compito di dare forma a quel terrore secondo le proprie paure. E ancora oggi i film horror più riusciti sono quelli in cui il mostro (che sia un demone, un fantasma o chissà cos'altro) restano nella sfera del non visto e del suggerito. Per Dracula è la stessa cosa: in un romanzo interamente composto da lettere, ritagli di giornale e annotazioni l'unica voce che manca è proprio quella del protagonista che dà il titolo al romanzo. Dracula viene percepito dai lettori solo attraverso la voce di altri personaggi che, molto spesso, sono smarriti nella loro stessa confusione, tanto da essere più o meno tutti narratori inaffidabili. Non abbiamo mai il suo punto di vista, né un racconto fermo sulla sua persona: è tutto un ritratto in divenire, pieno di crepe e spazi vuoti. Luoghi del non detto che il lettore torna sempre a voler riempire con la sua fantasia, con le sue ipotesi. Ecco, il Dracula di Bram Stoker è un romanzo che chiede "lavoro" al lettore, che lo chiama in prima persona al fronte, chiedendogli di fornire gli elementi mancanti, proprio come ha sottolineato anche Neil Gaiman in un bellissimo saggio contenuto nel libro Questa non è la mia faccia.
Secondo elemento di cui bisogna tener conto quando ci si avvicina a Dracula è il fatto che Bram Stoker ha dato un altro volto al vampiro. Se, fino a quel momento, lo strigoi era definito in base alla sue fattezze mostruose in grado di riflettere la mancanza d'anima all'interno del corpo terrificante, con Dracula le cose cambiano. Il vampiro continua ad essere un demone, una creatura abietta alla ricerca del riflesso di vita nel cremisi del sangue delle sue vittime: ma stavolta Dracula affascina. È questo il cambiamento: Dracula è il vampiro che aprirà alla rilettura romantica del Non Morto, che poi troverà la sua massima espressione nel crudele e meraviglioso Lestat de Le Cronache dei Vampiri di Anne Rice. Dracula non ha ancora un'anima, né gli interessa la bellezza o, Dio ce ne scambi, la redenzione. Ma adesso è un predatore che non scivola nel buio per non mostrarsi: appare invece come un attore che calca il pubblico, una creatura affascinante, che seduce. Non a caso Dracula è un romanzo dove una componente molto importante è data alla sensualità e al sesso, proprio perché la perdizione, nel romanzo di Bram Stoker, passa attraverso le tentazioni e i piaceri della carne. Ecco qual è stata la vera arma vincente del romanzo di Stoker: aver reso credibile un mostro a cui si cedeva per seduzione.
Ed ecco perché il protagonista Claes Bang sembrava perfetto ad incarnare questo principe transilvano assetato di sangue: perhé nei suoi lineamenti si nasconde la capacità di affascinare con uno sguardo penetrante o con i gesti affusolati di un felino in attesa di balzare sulla preda. E Claes Bang rimane senza dubbio l'elemento più riuscito di questa nuova trasposizione di Dracula, che dopo aver debuttato sulla BBC è arrivata anche in Italia su Netflix, proprio a inizio 2020. Tre episodi da circa novanta minuti l'uno, proprio come accadeva con Sherlock. E forse il problema principale di questa serie è proprio quello di aver tentato di riproporre una struttura simile a quella utilizzata per narrare del famoso detective al 221 di Baker Street. Una scelta non proprio azzeccata, perché i ritmi dell'indagine e del disvelamento di indizi e prove, stona con una storia che è nota per essere fata di sussurri e dubbi, di incubi e realtà difficili da gestire.
Il primo difetto di Dracula forse è proprio questo: nel tentativo di far rinascere il mito del vampiro ispirato a Vlad Tepes III, voivoida della Valacchia e noto con il nome brutale de l'Impalatore, Gatiss (che si ritaglia anhe un ruolo, proprio come aveva fatto in Sherlock) e Moffat hanno scelto di trasportarlo troppo repentinamente nel presente – anche nel primo episodio, dove tutto è incentrato nello scontro tra Jonathan e il Conte -, con un'ironia che pur strappando più di un sorriso grazie al tipico senso dell'umorismo britannico, finisce con l'essere troppo invadente, come una sorta di specchietto per le allodole. Altro problema di Dracula – se non si tiene conto di come gli effetti visivi e la CGI a volte lasciassero davvero a desiderare – è da ricercare proprio nel reparto narrativo. Se da una parte si sente quando Gatiss e Moffat siano sicuri del proprio prodotto, con una sorta di autocompiacimento in fase di scrittura (sembra quasi di sentirli, mentre si danno la pacca sulle spalle per aver inventato questo o quel cambiamento e/o colpo di scena) dall'altra l'attenzione spasmodica data ai dialoghi (a volte decisamente fuori contesto) ha fatto sì che i due autori perdessero di vista il nodo centrale del loro racconto:così lo spettatore si trova quasi sepolto vivo da una serie continua e costante di informazioni che però rasentano il vicolo cieco, perché non servono a niente e non conducono in nessun luogo. C'è di fondo una mancanza di coesione, che viene salvata solo dalla presenza fisica di Dracula: per il resto non rimane nulla da stringere tra le dita se non le proverbiali mosche. Tutta la carne al fuoco messa su dagli autori resta a bruciare senza alcun nutrimento per lo spettatore e l'idea di modernizzare tanto il personaggio quanto il racconto si ferma nei binari delle occasioni mancate.
Questo significa che Dracula è una serie da buttare? Naturalmente no, come nella maggior parte dei prodotti non si tratta di scegliere tra bianco e nero. Come abbiamo detto qualche riga più su l'interpretazione di Claes Bang è veramente magistrale e riesce a rendere perfettamente sia il personaggio nato dalla penna di Bram Stoker sia le intenzioni dei creatori di svecchiare un mito che è in realtà senza tempo (anche se non perdoneremo mai il cambiamento della frase iconica in "il sangue è vite", al plurale). I costumi e le ambientazioni sono davvero di ottima fattura ed è da applaudire anche il desiderio di concentrare un episodio su un viaggio in nave, dove tutto è reso oscuro e claustrofobico, riuscendo a dare allo spettatore una tensione che sopperisce alla mancanza di ritmo. Qua e là nei tre episodi, inoltre, ci sono delle scene esteticamente ineccepibili, anche solo la scena dell'arrivo di Jonathan in Transilvania, una macchia nera ferma in mezzo ad un manto di neve. Tuttavia questi elementi non riescono a far pendere l'ago della bilancia verso un giudizio totalmente favorele: anzi ne sottolinea ancora di più le potenzialità sprecate, il mancato raggiungimento di un obiettivo che era alla portata della miniserie e che sembra essere stato sacrificato in nome dell'ostentazione di un determinato esercizio di stile.