Fabrice Luchini
Fabrice Luchini

Nella casa: intervista a Fabrice Luchini


Il protagonista Fabrice Luchini parla del thriller Nella Casa, dal 18 aprile nei cinema italiani, diretto da Francois Ozon; nel cast anche Kristin Scott Thomas, Emmanuelle Seigner, Yolande Moreau.

Vi proponiamo l’intervista integrale fatta a Fabrice Luchini, uno dei protagonisti del nuovo film diretto da François Ozon, Nella Casa, in arrivo nelle nostre sale Giovedì 18 Aprile 2013 distribuito da BIM. Nel film, un ragazzo di 16 anni si insinua nella casa di un suo compagno di classe per trovare ispirazione per i suoi componimenti scolastici. Colpito dal talento e dall’indole insolita dello studente, il suo professore di francese ritrova il gusto dell’insegnamento, ma l’intrusione scatenerà una serie di eventi incontrollabili.

Due anni dopo Potiche – La bella statuina..., ritrova François Ozon…
Non avevo previsto di lavorare a un altro film subito dopo Le donne del 6 piano, visto che non sono un kamikaze iperattivo nel cinema, anzi dedico molto tempo della mia vita al teatro. Ma è capitato così! Sono uno che si lascia condizionare dal fascino e guidare dai sentimenti. Se uno è cortese, elegante, spiritoso, simpatico, talentuoso e ci piace lavorare insieme, accetto.
E poi c’era la sceneggiatura. Non sono molto bravo a leggere i copioni e mi interessa relativamente, per non dire per niente. Di solito è mia figlia che decide, ma in questo caso c’era qualcosa di imperativo: sarebbe stato inconcepibile per me rifiutare una sceneggiatura di quella portata, con quella suspense. Finalmente qualcosa di nuovo, ma non di astratto, di ambizioso, che fa sentire bene, ma non di psicologico.

Si sente vicino al modo in cui Germain si relaziona con la letteratura?
Diciamo che è nelle mie corde, ma è il regista il responsabile dello spostamento dell’attore verso il personaggio, è stato François a portarmi verso Germain. Il padrone è lui, io sono solo uno strumento. Da qualche anno ho trovato un metodo straordinario: sono completamente ubbidiente. In questo modo impiego molta meno energia e i registi mi conducono verso la nota di cui hanno bisogno. Il cinema è disponibilità, è vacuità: un attore deve arrivare su un set in una specie di stato di sonnolenza. Io non ho la pretesa dei grandi attori che sostengono di poter incarnare qualunque ruolo e più vado avanti, meno ce l’ho.
La responsabilità che avevo in questo caso era solo di essere un po’ vivace e divertente, malgrado il personaggio sia un po’ deprimente. Un attore deve essere efficace. Čechov è ammirevole per le sfumature intellettuali, ma apprezzo anche la chiarezza e l’efficacia degli attori di Feydeau, quando non restano prigionieri dell’esercizio diventando solo delle macchine.

Come lei nelle sue letture sul palcoscenico, Germain è una persona che trasmette l’amore per i grandi testi…
Sì, ma nel mio caso è molto diverso. Il mio pubblico teatrale paga cinquanta euro per venire ad ascoltare Baudelaire o La Fontaine, Céline o Flaubert! Germain non è nel registro del lirismo, non può essere un “atleta delle emozioni” per usare la definizione dell’attore teatrale di Jouvet. E io nemmeno. In teatro, sono io il padrone dell’inquadratura, soprattutto nei one-man show letterari. Il cinema è meno fisico e un attore è imbrigliato nell’inquadratura del regista. François Ozon è stato attento a temperare le mie lezioni di letteratura, che erano molto scritte. Era ossessionato dal timore che facessi Fabrice Luchini!

Non ha aggiunto il suo “grano salis” ai discorsi che fa Germain?!
Non direi, ma in realtà è un buon segno, poiché significa che mi sono appropriato di quello che era scritto. Non ho un’opinione su quanto afferma Germain, ma evidentemente in me risuonano degli echi. Sono stato io a suggerire a François Un cuore semplice di Flaubert, è un testo che adoro. E poi Germain si prende in testa un libro che si intitola Viaggio al termine della notte. Ma quello è un ammiccamento scherzoso di François a me. L’importante non è quello che afferma Germain, ma è il piacere del cinema e dunque è Ozon… Tuttavia, c’è una battuta che viene da me. Quando mia moglie mi parla di arte contemporanea, avrei dovuto ribattere con una lunghissima risposta teorica, ma ho pensato a Johnny Hallyday e l’ho sintetizzata in “non sono sicuro che sia vendibile”. Adoro Johnny, ha delle folgorazioni geniali. Prendo spesso a prestito le sue stoccate.

Lei che è conosciuto come attore comico qui sa essere anche molto commovente, in particolare nell’ultima scena sulla panchina…
Sì, c’è una vera alternanza dei due registri, è uno splendido ruolo. Un attore non può assumere una posizione di forza. Può essere pittoresco, ma deve svuotarsi per rendere i sentimenti umani. È un bene che mi vengano offerti ruoli come questo perché se fossi sempre una specie di sintomo che alcuni amano e altri detestano… Tuttavia è almeno una decina d’anni che mi propongono personaggi così e che mi sento dire “ah, sa trasmettere le emozioni”, come se fossi solo un personaggio di Rohmer, un inveterato chiacchierone, un uomo di sole parole che interpreta ruoli brillanti, sarcastici, cinici o meschini.

Come ha lavorato con Ernst Umhauer?
È stato molto rischioso da parte di Ozon affidare un ruolo di questa importanza a un giovane che non aveva quasi mai fatto film. Mi ha dato un’indicazione fondamentale: dimentica la letteratura e pensa che stai formando un giovane attore in un corso di teatro. E poi io ho trovato altre equivalenze, tanto per fare un po’ lo sbruffone: lo stupore dell’altro, le teorie di Lévinas… Ci avevo già riflettuto durante la lavorazione di Le donne del 6 piano: cosa vuol dire trovarsi faccia a faccia con un altro? Un attore agli esordi è estremamente imbarazzato, molto centrato su di sé e mentirei se dicessi che nel tempo questa cosa cambia, è la dannazione degli attori! Ma, per fortuna e per miracolo, l’interazione con qualcun altro, a meno che uno non sia davvero molto malato, è un terreno straordinariamente fertile per un attore. Quello che conta non è più tanto occuparsi della propria partitura, ma essere vicino al proprio partner al punto da concentrarsi esclusivamente su di lui. Mi piacciono questi ruoli adesso: essere il ricettore di quello che è l’altro. La gente non si aspetta questo da me che da molti anni recito da solo in teatro. Da solo con gli autori davanti al pubblico. Come compagnia non è niente male, mi direte: il genio della parola scritta in La Fontaine.

Come descriverebbe il legame che si crea tra Germain e Claude ?
Di psicologia si muore. Quando gli attori dicono: “Il mio personaggio…”. No, le cose sono più semplici di così: prendi un professore e un giovane e l’importante è il cinema, il piacere di dire i dialoghi, la situazione strana, il modo in cui io guardo quel ragazzo che incarna l’enigma della gioventù e del talento. Non faccio assolutamente un’analisi psicologica, me ne frego.
E quando recito con Kristin Scott Thomas, non ho molto altro da fare che adattarmi a quest’altra proposta che è rappresentata da un’attrice che ha un’esperienza diversa, una presenza intensissima e una fisicità incredibile. È impossibile ridurle ed è il motivo per cui quando iniziamo a recitare, quando lei mi parla e io le rispondo, si crea una dinamica differente rispetto a quella con Ernst. È una delizia, non c’è niente da inventare.
Conoscere il proprio ruolo non significa sapere la parte a memoria: significa innanzitutto sapere il posto che si occupa nella strutturazione complessiva del film, comprendere l’azione nel suo insieme e quale ingranaggio si è in questa azione per contribuire al suo svolgimento. In questo modo, anziché preoccuparsi di sé e ostacolare il movimento della narrazione, si cerca di spingerla avanti.

E in questo caso lei che ingranaggio era?
Non lo saprei definire in termini intellettuali, posso solo farlo in termini gerarchici: macchina da presa, giovane, creazione… Il ruolo principale è la macchina da presa di François Ozon, il secondo ruolo è Claude, una sorta di Rimbaud un po’ perverso, e il terzo è il professore che perde un po’ i pedali accompagnando questo giovane.
Per la prima scena in cui incontro Claude sapevo di dover fare in modo di non recitare le parole. Dovevo solo recitare la domanda “come è possibile?”. Il mio mestiere è questo, è soprattutto non recitare le parole. Nella vita sono molto analitico, commento tutto quello che succede, ma nel mio mestiere sono completamente rimbambito.

In che senso la macchina da presa di François Ozon ha il ruolo principale?
Perché è mobile, penetra nella casa, scruta, esamina, se ne va a zonzo ironica. Filma la psicologia nella moglie di Germain, l’estraneità nel giovane, la media borghesia nella casa dei Rapha e poi l’onirismo nei componimenti di Claude. Il mio lavoro di attore teatrale consiste nel suscitare immagini, generare proposte di immagini a partire da quello che gli autori hanno creato. Quello che è singolare nel film di Ozon è che lui a tradurre in immagini i temi, non ho io la responsabilità di questo. Negli ultimi tempi scelgo soltanto ruoli in cui non devo fare niente!

Come si sono svolte le riprese?
È molto gradevole lavorare con François, è un regista davvero singolare e molto attivo. È lui che decide le inquadrature, è sempre indaffarato, sempre dietro alla macchina da presa, ti fa venire voglia di stare sempre sul pezzo per fare parte della troupe, della squadra di lavoro. L’atmosfera sul set è eccezionale, riesce a renderla molto intensa. È furbo, birichino, enigmatico. Non intellettualizza nulla, è un uomo del fare, non di analisi o di conversazione. Ma non è un uomo del ‘700, è un uomo della sua epoca. È lontano dai miei scrittori preferiti. A lui piace Virginia Woolf, a me Céline. Non abbiamo riferimenti letterari comuni, a parte Flaubert, ma andiamo molto d’accordo.

Germain è un ruolo molto diverso da quello di Robert Pujol in Potiche – La bella statuina…
Eccome! Non ero sicuro che sarei stato capace di interpretare Robert Pujol nella chiave di rivisitazione del boulevard di Ozon. Era veramente un brutto ruolo, un personaggio orribile e per niente gratificante! Pujol non è cattivo, è un fallito, un ignavo e un mediocre. In Potiche – La bella statuina…, tutto ruotava attorno a Catherine Deneuve, ma io me ne sono sbattuto e un anno dopo Ozon mi ha dato un bel ruolo, umano, grande. È stato un vero regalo e non mi aspettavo che me l’avrebbe offerto.

Quale è stata la sua impressione vedendo il film?
Un’impressione di confort. Perdiamo tutti i punti di riferimento, ma anziché sentire il film freddo e astruso, lo sentiamo confortevole. Restiamo sospesi, a un certo punto non sappiamo più se siamo nel componimento o nella realtà e non ci interessa. Non è uno stato onirico come in molti film un po’ penosi in cui non capisci niente e ti ritrovi in un’odiosa brutta imitazione di Cocteau. E non è nemmeno realismo psicologico. È davvero… pazienza, mi tocca usare una parola un po’ abusata… giubilatorio.

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