Monday, recensione del film con Sebastian Stan
Monday racconta l'incontro fra due americani in Grecia, che inizia come una spensierata commedia romantica ma si evolve presto in una storia cruda, realista e malinconica sulle difficoltà di mantenere a galla una relazione e andare incontro alle proprie responsabilità.
di Matilde Capozio / 13.05.2022 Voto: 7/10
Tra le nuove uscite disponibili sulle piattaforme homevideo troviamo Monday, dramma sentimentale presentato al Festival di Toronto 2020, diretto dal greco Argyris Papadimitropoulos, autore anche della sceneggiatura insieme a Rob Hayes.
La storia si svolge ad Atene, dove Mickey (Sebastian Stan) e Chloe (Denise Gough), entrambi americani, si conoscono a una festa in un caldo venerdì sera: lui è un musicista che vive lì da molti anni, lei è un avvocato che invece, dopo aver trascorso più di un anno in Grecia, sta per rientrare negli USA; nel corso di un turbolento e passionale weekend passato insieme, i due dovranno decidere se dare al loro incontro una possibilità, e vedere se dall'attrazione iniziale può nascere qualcosa di serio e concreto.
Monday è un film in cui troviamo quindi serate finite in blackout a causa di alcool e droghe, corse senza vestiti che provocano incontri ravvicinati con la polizia, numerosi amplessi consumati dove capita, ma chiunque si aspettasse una commedia goliardica e demenziale resterà spiazzato: il nucleo del film è semmai la cronaca delle fasi di una storia fatta di slanci ed euforia ma in cui non mancano momenti difficili e dolorosi, raccontata con toni talvolta crudi che vanno a cercare gli aspetti realistici e veritieri anche nelle situazioni più paradossali.
Se fossimo in una tipica rom-com, l'incontro fra Chloe e Mickey sarebbe un classico caso di due anime gemelle che si riconoscono a prima vista, superando insieme ogni ostacolo per vivere sempre felici e contenti, mentre qui ci sono due protagonisti umanamente imperfetti, da un lato ostacolati dai propri limiti e difetti, dall'altro desiderosi, forse, di trovare l'uno nell'altra il modo per liberarsene e superarli; entrambi infatti sono alle prese con questioni irrisolte, a cominciare dalle loro relazioni passate, che però sembrano decisi ad affrontare per dare una possibilità, prima ancora che a un'altra persona, a loro stessi.
Con questo stato di sospensione fra voglia di spensieratezza e di responsabilità, si spiega anche il senso del titolo: la trama si snoda infatti lungo un arco temporale di alcuni mesi, ma lo spettatore assiste solamente a ciò che succede durante qualche weekend; la domanda implicita quindi è: cosa accadrà quando alla domenica sera si succederà infine il lunedì, e bisognerà fare i conti per davvero con la quotidianità che questo, e per estensione la vita presa nella sua interezza, comporta?
A fare da sfondo alle vicende dei personaggi c'è una Grecia di cui non ammiriamo tanto la bellezza idilliaca da cartolina o l'aspetto più turistico, ma ne vediamo invece un lato inedito, anche urbano, a cominciare dall'appartamento, appartenuto alla nonna di un amico, in cui vive il protagonista, che si ritrova quindi ad abitare in una casa piena di mobili antichi e dallo stile inevitabilmente demodé, più adatto al gusto di un'anziana signora. Il film così traccia anche un profilo di una generazione, quella dei trentenni di oggi, cosmopoliti, per certi versi anche apolidi, abituati a spostarsi da un Paese, anche da un continente, all'altro, facendo gruppo con persone dalla provenienza variegata, con esiti a volte incerti: come dimostra ironicamente la sequenza della festa, a volte non basta la stessa nazionalità (o l'orientamento sessuale) per garantire il successo di un incontro.
Essenziale al film è naturalmente l'interpretazione e l'alchimia dei due protagonisti, Sebastian Stan in quella che è per lui una stagione ricchissima fra cinema e tv (Pam e Tommy, Fresh, Secret Team 355) e l'irlandese Denise Gough, affermata attrice teatrale, con una performance improntata alla naturalezza su dialoghi in gran parte improvvisati.
Il regista realizza dunque un piccolo film dolceamaro che lo fa accostare, più che al conterraneo Lanthimos, ad autori indie statunitensi come Richard Linklater o Drake Doremus, raccontando con lucidità ma anche partecipazione una storia malinconica e non melensa.