J’accuse, la recensione [Venezia 76]
Vincitore del Gran Premio della Giuria al 76o Festival di Venezia, J'Accuse è un film che colpisce per l'alto rigore storico e la maestosa messa in scena che si muove alle spalle di ottimi interpreti su una pagina oscura della storia francese
di Erika Pomella / 10.09.2019 Voto: 8/10
Fresco vincitore del Gran Premio della Regia alla 76a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, J'accuse è l'ultimo film di Roman Polanski, con Jean Dujardin, Louis Garrel ed Emmanuelle Seigner. La storia è una delle macchie che intaccano la storia della Francia: è il racconto (vero) di Alfred Dreyfus, militare ebreo dell'esercito francese che venne accusato di tradimento, con l'accusa di aver passato informazioni a un ufficiale tedesco nel periodo immediatamente successivo alla guerra Franco-Prussiana, quando i rapoprti tra le due nazioni erano davvero sul filo del rasoio.
A causa di prove falsificate e di un processo sommario che teneva conto anche dell'anima antisemita della Francia dell'epoca, Dreyfus fu dichiarato colpevole, degradato e spedito nella prigione dell'Isola del Diavolo nella Guyana Francese, famosa al grande pubblico per essere l'isola dove vengono spediti anche i protagonisti di Papillon. L'affaire Dreyfus, però, divenne in pochi anni un vero e proprio caso, che chiamò a raccolta gli intellettuali dell'epoca, non da ultimo Emile Zola, che scrisse il famoso articolo J'Accuse da cui il film prende il titolo.
La pellicola di Roman Polanski – che in Italia avrà il titolo L'ufficiale e la Spia come il libro di Robert Harris da cui è tratto – segue allora le vicende di Alfred Dreyfus, seguendo però le scoperte del Colonnello Picquart, interpretato magistralmente da Jean Dujardin: maggiore di Dreyfus e vagamente antisemita egli stesso, ma con un profondo senso di giustizia e lealtà che lo spingerà a indagare su tutto ciò che sembra sospetto nel famoso affaire.
Sebbene la presentazione della pellicola in concorso sia stata in qualche modo oscurata dalle polemiche inerenti la presenza di un film di Polanski a Venezia, J'Accuse è un film dalla qualità indiscutibile. Accanto ad un rigore storico eccezionale, la pellicola offre al pubblico non solo una regia solida e sicura, ma anche un affresco tutt'altro che polveroso di tempi pieni di odio e di ambizione al potere. Sebbene J'Accuse parli di Alfred Dreyfus e di quello che gli capitò, l'attenzione è più che altro puntata su Georges Picquart: è lui il vero protagonista della pellicola, suo il sguardo che si posa furioso sulle macchinazioni di un esercito che aveva sempre seguito ciecamente e da cui si trova irrimediabilmente deluso.
J'Accuse, allora, diventa anche un film sugli intrighi e sulle menzogne, su quello che gli uomini sono disposti a fare per non perdere la faccia e, peggio ancora, per non correre il rischio di allontanarsi da una posizione di potere conquistata che gli conferisce una sorta di tranquillità. E in questo senso Roman Polanski torna a raccontare uno dei temi che tanto sono cari alla sua produzione: la storia di un singolo uomo costretto a muoversi quasi indifeso in una società che gli è nemica, che in qualche modo lo vuole assoggettare con la forza di una Storia contro cui non c'è combattimento. Una tematica, questa, che forse si sposa con la storia dei primi anni di Polanski, nato in Francia e fuggito in Polonia per scappare all'antisemitismo dilagante, solo per poi essere costretto a fuggire di nuovo, quando i suoi genitori vennero deportati. Ma le similitudini tra i due mondi finisce qui. Alfred Dreyfus non è Roman Polanski, e viceversa. Chi vuol vedere nel film rimandi autobiografici ad un'esistenza perseguitata del regista, probabilmente manca del nodo principale che distingue i due casi: Alfred Dreyfus fu accusato ingiustamente, colpevole per prima cosa di essere un ebreo in un mondo dove gli ebrei non erano ben visti. Fu un innocente che venne preso in giro dalla giustizia che aveva giurato di servire. Di innocente, nell'affaire Polanski, non c'è assolutamente nulla. Reoconfesso del crimine e latitante per il governo degli Stati Uniti, Polanski è stato in qualche modo artefice del destino che ora, a 86 anni, lo costringe sul territorio francese. Dreyfus, al contrario, fu vittima del gioco delle parti.
Tralasciando però la componente che lega il film alle vicende personali del suo regista, va riconosciuto a J'Accuse di essere una brillante trasposizione di un caso giudiziario dall'impianto abbastanza classico, che regala anche lampi di inattesa ironia e che soprattutto sembra voler omaggiare un certo tipo di cinema. Se, in una scena di duello, il richiamo al Barry Lyndon di Kubrick è abbastanza palese, è soprattutto alla propria cinematografica che Polanski guarda, quasi con malinconia. Film essenzialmente di interni, di sale spaziose ma con il potere di essere soffocanti, spesso ammantante con filtri freddi e toni che tendono al grigio e al tortora, Roman Polanski sembra aver voluto viaggiare fino ai picchi più alti della sua carriera, strizzando gli occhi a quella che comunemente viene definita la trilogia dell'appartamento: L'inquilino del Terzo piano, Repulsion e Rosemary's Baby. Sebbene le tematiche siano del tutto diverse – l'idea di casa come specchio di un animo corrotto non c'è assolutamente in J'Accuse – l'estetica che accompagna i racconti di questi personaggi al limite della società sembra essere quasi un trait d'union che lega i quattro universi.
Infine va notata la grande prova istrionica offerta dal cast: se di Jean Dujardin abbiamo già parlato in apertura, un plauso va fatto anche a Louis Garrel che, nelle poche scene in cui lo si vede protagonista, riesce a riempire il quadro e a dare allo spettatore la sensazione di un'impotenza soverchiante, contro cui nemmeno la rabbia può fare niente.