La Horde: la recensione del film
Recensione del film The Horde (2009) diretto da Yannick Dahan, Benjamin Rocher e con protagonisti Eriq Ebouaney, Aur
di Redazione / 04.09.2010 Voto: 4/10
Recensione del film "La Horde", lo zombie movie francese in uscita in Italia il 01 ottobre 2010.
Gli zombie, al cinema, da Romero in avanti, sono sinonimo di politica: spesso e volentieri anche nelle loro declinazioni apparentemente meno impegnate. Non fa eccezione questo La Horde, in arrivo dalla Francia, un manifesto rabbioso e sparato in faccia allo spettatore che sfoga tutta la sua ira nichilista sulla situazione contemporanea nella corrispondenza tra stile formale e contenuto.
Tutto, nel film diretto da Yannick Dahan e Benjamin Rocher, parte da una vendetta (e non è un caso). La vendetta di un gruppo di flics senza troppi scrupoli nei confronti di chi gli ha ammazzato un collega: una banda di criminali i cui personaggi di spicco sono due fratelli africani (due “fottuti nigeriani”, nella loro stessa definizione, portatori delle cicatrici fisiche e psicologiche di un’atroce guerra civile) in lite perenne e uno psicotico francese che pare un cattivo tenente keiteliano intinto nel tarantinismo più spinto.
Ecco che La Horde parte allora come un polar cupo, metropolitano e violentissimo, per poi trasformarsi in altro nel momento in cui, senza motivo apparente, dentro e intorno l’isolato condominio di banlieu dove si svolge il regolamento di conti iniziano a dilagare ferocissimi morti viventi.
La ricostruzione dell’intreccio è fondamentale per comprendere come in La Horde tutti i protagonisti finora citati (per non parlare di personaggi che s’incontrano successivamente, come un fascistone che rimpiange le stragi effettuate ai "bei tempi" in Indocina e accarezza la necrofilia) siano testimoni e rappresentanti dell’ampio spettro di crudeltà, mancanza di scrupoli e perversioni di cui la natura umana riesce a fregiarsi. Ed è inutile dire che il loro forzato fare squadra contro la nuova minaccia che gli si para davanti appare condannato al fallimento fin dal primo momento: quando persino l’unica donna del gruppo, una poliziotta che si scoprorà incinta, si aggrappa alla sua gravidanza per giustificare una lotta per la sopravvivenza nel nome di un egoismo inquietante.
Sarà proprio la donna, protagonista tardiva della storia, ad accompagnare lo spettatore ad un finale che, dopo una narrazione velocissima, direttissima, iperviolenta e dalla grana volutamente grossa, getta addosso a chi guarda un messaggio di pessimismo cosmico e senza ironia alcuna. Dahan e Rocher non fanno alcun mistero: l’umanità è dannata, si è dannata con le sue stesse mani, il sangue chiama sangue, si sono persi il senso della comunità, della solidarietà, la conservazione della famiglia è una convenzione che ha perso la sua natura affettiva per farsi abitudine che porta ad attrito e solitudine.
E non esiste più giustificazione morale, nemmeno quella della preservazione di un’altra vita, per gli egoismi: la fuga solitaria è solo un’illusione, la rapacità che ci portiamo dentro e che proiettiamo fuori è destinata ad avere la meglio. Anche a fronte dei sacrifici che quei pochi che, isolatamente e spesso per disperazione, sono in grado di comprendere la necessità imperativa di un cambiamento radicale.