Chez nous - A Casa Nostra (2017)
Chez nousPauline è un'infermiera a domicilio che lavora tra Lens e Lille. Da sola cresce i due figli e si prende cura del padre, un ex operaio siderurgico. Scrupolosa e generosa, è amata dai suoi pazienti che possono sempre contare su di lei. Sfruttando la sua popolarità, i dirigenti del Rassemblement National Populaire le propongono di candidarsi a sindaco per le elezioni comunali. Pauline scoprirà poco a poco i legami inquietanti dei suoi padrini politici e i meccanismi di marketing dietro al suo ruolo.
Info Tecniche e Distribuzione
Uscita al Cinema in Italia: giovedì 27 Aprile 2017Uscita in Italia: 27/04/2017
Prima Uscita: 22/02/2017 (Francia)
Genere: Drammatico
Nazione: Francia, Belgio - 2017
Durata: 117 minuti
Formato: Colore
Produzione: Synecdoche
Immagini
NOTA DEL REGISTA – Lucas Belvaux
Sta accadendo qui in Francia, nella nostra terra, ogni giorno. È un discorso che sta diventando banale. Parole che vengono scatenate, disseminando un tanfo abietto che causa sempre meno fastidio. È una marea che si alza, erodendo le barriere antiallagamento. È un discorso che cambia a seconda del pubblico, che si adatta ai tempi, che segue il flusso. Un discorso che capovolge le parole, le idee e gli ideali, e li distorce. Un discorso che mette le persone l'una contro l'altra. E la gente passa, dapprima impercettibilmente, poi più chiaramente, dalla solitudine al rancore; dal rancore alla paura; dalla paura all'odio; e da lì alla rivoluzione, con la sua inevitabile eco di Révolution nationale. Se ne parla ed è visibile, ma tuttavia nulla viene fatto, lasciando una sensazione di déjà-vu, di impotenza, e anche di stupore. La sensazione che si sia provato di tutto, che ogni parola, ogni tentativo di controbattere si rivolti contro la persona che lo compie. Che ogni affermazione – politica, morale o culturale – sia definitivamente scontata e illegittima. Forse la finzione è l'unica risposta udibile, in quanto, come il discorso populista, si rivolge ai sentimenti, al subconscio, alla pancia. Proprio come i demagoghi, racconta delle storie. Ma al contrario di loro, che provano a far passare delle fantasie per realtà e che semplificano all'estremo, la finzione cerca di capire, di fornire un racconto della complessità del mondo, dell'umanità, e dell'epoca. Senza dubbio, soltanto la finzione può sollecitare nelle persone la più profonda commozione. Mentre in un documentario ogni persona appare come un individuo che parla per sé, un personaggio è percepito dallo spettatore come una costruzione, una proposta in cui è possibile identificarsi o riconoscere qualcun altro, vicino o meno. Offre un'immagine sulla quale proiettare se stessi, un riflesso col quale identificarsi. Probabilmente perché siamo più aperti quando ci confrontiamo con un personaggio, più inclini a riconoscere noi stessi in lui. Tra l'autore di narrativa – romanziere o cineasta – e lo spettatore c'è uno scambio intimo, che a volte è quasi ignaro del subconscio. E mi piace pensare che quello che mi interessa, interessi anche ad un altro essere umano, e che ciò che mi sconcerta sconcerti anche altri, anche se a volte è incomprensibile, sia per loro che per me. Ho sempre realizzato i miei film con l'obiettivo di rispondere alle domande che facevo a me stesso (anche se ho raramente trovato le risposte). E nel formularle ho l'impressione di averle condivise con gli spettatori, alcuni dei quali hanno lasciato il cinema leggermente diversi rispetto a quando erano entrati. In più di 25 anni, grazie ai benefici dell'esperienza, sono cambiati il mio modo di scrivere, il mio modo di girare, la tecnica e i temi dei miei film. La sola cosa che non è mai cambiata è la mia maniera di approcciarmi ai personaggi, come li vedo e li amo, chiunque siano e da dovunque vengano. I trentenni in Parfois trop d'amour, la stramba coppia di Per scherzo!, la gente di Grenoble nella Trilogia, i lavoratori di Liegi in La raison du plus faible, il grande capo in Rapt, i 38 testimoni di Le Havre, o la parrucchiera di Arras e il suo filosofo parigino in Sarà il mio tipo?; li ho amati tutti allo stesso modo, li ho guardati con la stessa gentilezza. Alcuni mi hanno fatto ridere, altri mi hanno commosso o spaventato, ma in fondo, ho sempre scritto per loro. Pe raccontare le loro storie, le loro emozioni, anche se ho fatto sì che le mie domande diventassero loro, e le mie ansie le loro paure. Ho fatto sì che i miei problemi diventassero i loro. Una parte di me è trasposta in loro; quando scrivo, divento ognuno di loro. Erano tutti ancorati ad un territorio, parte di una storia. Non posso immaginare un personaggio al di fuori del luogo, del tempo e della società in cui vive. Anche qui racconto la storia di persone che vivono nel mondo di oggi in un luogo specifico. In una regione che è stata spaccata in due dagli sconvolgimenti della storia europea per secoli – in particolare due guerre mondiali e due rivoluzioni industriali in 150 anni. Questo ha lasciato tracce profonde, impronte e cicatrici, fratture nel terreno e nelle anime, oltre che nella società.
Tutti i personaggi di A Casa Nostra, ognuno a modo loro, a seconda della loro età e delle loro esperienze, portano con sé una parte di questa storia. Alcuni la accettano, altri vogliono fingere che non esista; alcuni vogliono riscriverla per adattarla a loro stessi, ma tutti sono parte di quanto viene scritto e di quanto ha iniziato ad essere scritto molto tempo fa. Perché la storia non si ferma mai, è infinita. E duplice per natura. C'è la storia più grande, che viene scritta; e la storia privata degli individui che procede casualmente, di giorno in giorno, senza che nessuno si renda conto di essere parte di un movimento molto più antico e profondo. Queste sono le storie più piccole, che durano soltanto il tempo di una vita, la storia di quelli che le hanno vissute. Pauline l'infermiera, Stanko l'operaio, Jacques l'ex metalmeccanico, Berthier il dottore, e Nathalie la maestra; tutti hanno lo stesso status. Esseri umani pieni di contraddizioni, aspettative, speranze, qualche volta delusioni, bisogni, amore, sicurezza, e fiducia nel futuro. Tutti vengono a contatto gli uni con gli altri, si conoscono, recitano per se stessi e per gli altri, reagendo anche l'uno all'altro, formando una comunità paradossale, una società. Dove vivono, compongono il mondo. Sono il mondo. Un mondo fittizio nutrito della realtà di oggi. Storie individuali per narrare la storia più grande. Una società di personaggi per raccontare qualcosa sull'umanità. Il nord della Francia è una regione che ho ripreso spesso. La amo, probabilmente perché mi ricorda il paese dove sono nato; ma soprattutto, per quello che trasmette visivamente. Perché ogni regione racconta sempre la sua storia. Porta le tracce, cicatrici e memorie. I paesaggi, le città e i villaggi sono stati costruiti e riedificati, modellati dal genere umano, generazione dopo generazione. Ciò ha seguito le utopie e le pazzie di ogni età, e i bambini che giocano nei campi oggi trovano ancora granate che sarebbero dovute esplodere 100 anni fa. Scivolano giù dai cumuli di scarti strappati alla terra dalla forza delle braccia dei minatori. I contadini lavorano il terreno tra i cimiteri militari. Eppure, questa campagna è bella. All'alba, quando è blu, offuscata dalle nebbioline autunnali, nella fredda stretta del gelo invernale, scintillante nella rugiada primaverile. È bella a mezzogiorno, quando è verde, le colline rotolanti verso il mare. È bella di nuovo la sera, quando le città, anche lontane, si accendono di luci multicolori. Ed è tristemente cupa quando il genere umano la sfigura, squarciandola con le strade, coprendola con le aree industriali, i centri commerciali, le case popolari, le periferie e le città dormitorio, gli svincoli autostradali, i depositi e i magazzini. Questo contrasto è il cuore del film. Racconta il passato e il presente. Prevede il futuro. Perché la geografia struttura le vite delle persone, e può anche destrutturarle. Quella che era una vita rurale coerente è diventata "peri-urbana", il discontinuo straripamento del confine della città, un mondo periferico, uno spazio marginale dove gli abitanti si sentono rifiutati, dimenticati. Privati della loro identità, del loro modo di vivere. Persone che erano, fino a ieri, cittadini, ora vivono come reietti, disadattati, al di fuori di un mondo che si sta reinventando. Questa geografia struttura anche il film, costruendo tensioni permanenti, visive o drammatiche, sociali, politiche o individuali. La tensione deriva da ciò che viene detto, ovviamente, e da quanto succede, ma anche da quello che viene visto. L'incoerenza di un atteggiamento, di un discorso o di una parola, privati o pubblici; il paradosso della violenza di una discussione quando tutto intorno ad essa trasmette un'impressione di benessere, di agio, di "vivere insieme". Sì, A Casa Nostra è un film politicamente impegnato. Non è, ad ogni modo, un film militante, e non espone davvero nessuna teoria. Ho tentato di descrivere una situazione, un partito, una formazione sciolta, e decifrare il suo discorso, comprendere il suo impatto, la sua efficacia e potere di seduzione. Di mostrare la graduale rottura del superego che questo provoca, liberando un tipo di linguaggio fino a quel momento impronunciabile. Esponendo la confusione che mantiene, le paure che istiga e trasforma in strumento politico. Il film non è e non dovrebbe essere rivolto primariamente alle persone che sono già mobilitate, e che sanno che cosa vuole dire davvero l'estrema destra. Tutti potrebbero sapere cosa descrive, ma le persone oggigiorno ottengono le loro informazioni da media guidati più dallo spettacolare e dall'emozionante che dall'analisi e dalla riflessione. Ho cercato di evitare di riservarlo agli informati, ma di mettermi in contatto con tutti, "da persona a persona", in un certo senso. Di mettere in scena, piuttosto che dimostrare. Di sorreggere uno specchio, senza distorsione, perché sebbene gli specchi riflettano, possono anche far riflettere quelli che li guardano. Gli specchi rivelano anche ciò che c'è dietro di noi, ci pongono in un ambiente, nel mondo, oggettivamente. Allo stesso tempo, ci mettono in prospettiva e di fronte a noi stessi. Questo film è prima di tutto rivolto a quelli che un giorno, forse domani, saranno tentati di rispondere a questi canti di sirena. Non so se sarà di qualche aiuto. Ma in ogni caso sono sicuro che valga la pena di fare un tentativo.
INTERVISTA A LUCAS BELVAUX
È la prima volta che scrivi una sceneggiatura in collaborazione, in questo caso con il romanziere Jérôme Leroy. Perché hai sentito il bisogno di scrivere assieme a qualcun altro?
Due motivi. Sono stato indotto ad occuparmi di questo argomento in primo luogo grazie all'eccezionale romanzo di Jérôme Leroy, Le Bloc. Adattare il romanzo mi sembrava impossibile, ma ho preso in prestito da esso un certo modo di approcciarmi all'argomento. In secondo luogo, si potrebbe dire che avevo bisogno di qualcuno che conoscesse l'argomento intimamente. Da un punto di vista tecnico – qualcuno che conoscesse i meccanismi, gli ingranaggi e la storia. Inoltre, Jérôme vive nel nord della Francia. Sa di cosa stiamo parlando.
Nel film è presente un personaggio chiamato Agnès Dorgelle, interpretato da Catherine Jacob, che ha certe cose in comune con Marine Le Pen. Qual era il tuo scopo con lei?
Volevo che lei fosse più un'eco che un ritratto. È un personaggio cinematografico "ispirato a", e c'era molto su cui lavorare ed essere ispirati in quel senso. Sfortunatamente. Con lei ho lavorato sui segnali più potenti, quelli che sono immediatamente identificabili – come i capelli biondi e la durezza. Questi sono significanti per gli elettori e una maniera quasi subliminale di trasmettere un messaggio senza parole. La cosa interessante è che è lo stesso dappertutto. C'è una specie di "populista internazionale". Volevo concentrarmi sull'immagine pubblica. Non vediamo la sua vita privata, anche se la vediamo a casa. È presentata unicamente in relazione alla politica, durante le manifestazioni e le assemblee. Quella è l'immagine che lei intende presentare, l'immagine che sceglie e su cui ha lavorato, ed è quella a cui sono interessato. È un'immagine senza sfumature al fine di essere il più efficace possibile. È quasi uno slogan di per sé.
Pauline è un'infermiera giovane e devota che affronta la povertà ed il vuoto emotivo. Pensi che lei soffra in qualche modo?
Certo. È sola con due bambini e priva d'amore. E affronta la sofferenza ovunque. È quotidianamente in contatto con la sofferenza delle altre persone, sia fisica che sociale. Infatti, all'inizio del film dice: "Io mi arrangio". È una persona empatica ed aiuta le persone fragili con cui lavora ogni giorno. E poi c'è la sua personale sofferenza. Sentiamo che c'è qualcosa che non va bene nel suo rapporto con il padre. E quel rapporto, precario o conflittuale, attraversa l'intero film. Credo che unirsi ad un partito estremista e populista – qualunque esso sia – sia certamente connesso a quello, all'immagine del padre.
Non è una coincidenza che Berthier, la persona che la guida verso l'estrema destra, sia un dottore. È stato molto premuroso con sua madre malata e Pauline lo vede come un personaggio protettivo.
O paterno – qualcosa su cui torniamo di nuovo. Lo conosce sin da quando era un'adolescente ed è un collega. È nativo del luogo, parte di un movimento politico di destra vecchio stile che esiste nel nord della Francia. E infatti, c'è una tradizione populista nell'estrema destra, un certo amore per "il popolo", anche se cosa si intenda con "il popolo" è tutto tranne che chiaro. Quindi per Pauline Berthier è una figura ambigua – è sincero per quanto riguarda l'affetto che nutre per lei, ma allo stesso tempo la sta manipolando.
André Dussolier eccelle in questo ruolo, riuscendo ad essere sia confortante che inquietante…
Sì, André è un grande attore. È a suo agio sia che reciti in commedie leggere, sia che interpreti personaggi molto oscuri. In questo film, assolutamente senza rottura tonale, passa da qualcosa di affettuoso a qualcosa di molto inquietante, a volte persino spaventoso. Ha una tale esperienza ed abilità come attore che è capace di lasciarsi andare e darsi senza nemmeno pensarci. La si potrebbe chiamare generosità.
Accettare questi ruoli è stata una decisione difficile per Catherine Jacob e André Dussolier? Credo che entrambi abbiano riflettuto accuratamente e a lungo prima di accettare. Senza dubbio sentivano che era rischioso e si chiedevano come sarebbe stato percepito il loro recitare personaggi come questi. Qualche volta sul set dicevano: "Non riesco a credere a quello che tu mi stai facendo dire!" È vero che alcune delle battute di Berthier, e il discorso di Agnès Dorgelle alla manifestazione, erano molto violente. Ma gli attori devono essere del tutto convincenti e assolutamente sinceri o non funziona. E quando funziona, c'è sempre la paura che il pubblico scambi o confonda il personaggio e l'attore che lo interpreta.
I responsabili del partito di estrema destra sono come cacciatori di teste in cerca dei giusti candidati. Ciò riflette la realtà? Sostanzialmente, sì. Tutte le questioni riguardanti l'estrema destra – le sue varie componenti, i confini sfumati, quello che viene detto su internet (quella che chiamiamo "fasciosfera") – sono esplorate approfonditamente nel film. Non abbiamo inventato nient'altro che ciò che è direttamente nella trama. Per ritornare alla domanda, nei partiti politici c'è sempre qualche forma di marketing, pubblicità e propaganda. È addirittura lo scopo di una campagna elettorale. Quello che rende differente il Front National è che sta affrontando due problemi unici: vuole mostrare un'immagine rispettabile e avere candidati ovunque, ma manca di dirigenti. Ed è anche per questo che ci sono così tanti giovani e donne dell'estrema destra sulle liste elettorali, e questo si applica a tutti i paesi europei. Vogliono trasmettere l'immagine di un partito giovane e sorridente che è vicino alle persone, un partito di "rinnovamento". E per quanto riguarda questi candidati "principianti", che non hanno nessuna esperienza politica pregressa, essi godono di rapido riconoscimento ed ascensione attraverso l'apprendistato politico, mentre tale passaggio attraverso i partiti tradizionali è molto più lento. In termini di rispettabilità, l'immagine non è così splendida. Secondo un sondaggio del 2012, il Front National era di gran lunga il partito con il maggior numero di membri eletti che avevano ricevuto delle condanne penali o che erano stati indagati*. Questa è un'informazione ormai vecchia di qualche anno, perciò mi interesserebbe sapere com'è oggi la situazione.
I problemi con la rispettabilità derivano anche dagli ex membri… Certo, persone le cui carriere politiche sono all'estremità ultima dell'estremo. Il problema con loro non è ideologico, è che lasciano una macchia sull'immagine del partito. Comprendono i sostenitori dell'identità nazionale, gli ultra-nazionalisti, i neonazisti, i revisionisti, i fan di Pétain, Franco, o Léon Degrelle, il "führer belga" – persone con cui non è accettabile essere visti, che tuttavia gravitano attorno al partito e a cui è permesso restare fino a quando rimangono discreti. Alcuni riescono a farlo; "si cambiano d'abito", come dicono nel film. Ma altri non riescono, come Stanko (Guillaume Gouix) e questi sono quelli che sono più difficili da gestire. Oltretutto, lasciano tracce, soprattutto sui social ma non solo.
Pauline si sente importante perché le è stato chiesto di essere una candidata ed è stata invitata nel mondo di Agnès Dorgelle. Ma a differenza della sua amica Natalie, che è molto più rancorosa, lei sembra sentirsi a disagio. Come mai? Perché Pauline ha quell'empatia di cui abbiamo parlato prima. È gentile con i suoi pazienti, alcuni dei quali sono i bersagli diretti del partito che rappresenterà. Ma non appena la sua candidatura viene annunciata, percepisce che le viene scavata attorno una trincea e litiga con alcuni dei suoi amici. Ma il disagio interiore che sente porta Pauline ad irrigidire la sua posizione. È ciò che succede anche con gli elettori del Front National. Più sentono dire che è un partito cripto-fascista o razzista, più è convinto il loro rifiuto. Finché – nel caso di Pauline – il movimento con il quale è impegnata non inizia a toccare la sua vita personale.
Émilie Dequenne come ha affrontato la sceneggiatura e l'evoluzione del suo personaggio? Émilie è entrata nel film attraverso il suo personaggio, scena per scena e battuta per battuta. Non ha provato ad avvicinare il personaggio a sé. Ci si è invece avvicinata gradualmente finché non l'ha compreso intimamente. Poi abbiamo affrontato ogni problema di regia insieme. Per esempio, abbiamo parlato della violenza dentro il suo personaggio finché non ci siamo accordati su quello che volevamo trasmettere, e come, in differenti momenti del film, quella violenza dovesse essere trattenuta o liberata. Per esempio, all'inizio del film quando è brusca al telefono con il padre dei suoi bambini.
O durante lo scontro tra Pauline e suo padre. Quella scena è molto potente, con molti sentimenti espressi da entrambe le parti. Suo padre critica la scelta politica che lei ha appena compiuto, ma allo stesso tempo, le dice che non sa nulla. E quindi, di conseguenza, lui non le ha insegnato nulla. Infatti, e lui lo sa perché vive l'impegno politico di sua figlia come un suo fallimento. Dice che non è orgoglioso di lei. E allo stesso tempo la rimprovera di non aver mai lottato per nulla o essersi impegnata politicamente. Ed è vero. C'è una generazione di figli e figlie di attivisti – sindacalisti e femministe negli anni ottanta – che ha rifiutato di farsi coinvolgere. E la generazione successiva è ancora peggio. I movimenti di massa sono una cosa del passato, e le organizzazioni giovanili sono state ridotte a gruppi di nicchia. C'era un vuoto nel panorama attivista, nella riflessione ideologica. Oggi siamo tornati ad una militanza in stile anni settanta che è più radicale e anche più segmentata. Quindi il padre di Pauline non ha completamente torto, anche se si accolla parte della colpa. E non bisogna perdere di vista il contesto storico. Dopo la caduta del Muro la posizione politica e la scelta di campo non sono più state così chiare.
Ci si potrebbe anche arrischiare a dire che la sinistra, che tradizionalmente ha difeso le speranze delle classi operaie, non ha soddisfatto le aspettative quando è salita al potere. E ciò non è privo di conseguenze…
Appunto, e questo è continuamente sottinteso nel film, attraverso il senso di abbandono che i pazienti di Pauline percepiscono; un sentimento che lei condivide. Detto questo, non puoi rimuovere la responsabilità individuale dalle persone, compresi gli elettori che scelgono di appoggiare l'estrema destra. Si potrebbe dire che c'è una pigrizia democratica, dal momento che la maggioranza degli elettori è rimasta in disparte e ha permesso a quelli che ha eletto di fare qualunque cosa. Ma la democrazia esige impegno da parte dei cittadini. Non è una coincidenza che il Front National si stia concentrando sul nord della Francia e sulle regioni della classe operaia che tradizionalmente sono state sbilanciate a sinistra, e che stia cercando come riferimento persone come Jean Jaurès, per esempio. O che ricordi alla gente che durante gli scioperi del 1947 è stato il ministro dell'Interno socialista Jules Moch a mandare l'esercito contro i minatori. Questo tipo di discorso genera estrema confusione e funziona.
Il tuo film è diverso da quella che si potrebbe chiamare "narrativa di sinistra", con un chiaro discorso politico. Tratta piuttosto del tentativo di comprendere cosa potrebbe spingere le persone ad appoggiare un movimento di estrema destra. Ma con il cinema, non c'è il pericolo di empatizzare con "il nemico"?
C'è, ma abbiamo bisogno di quell'empatia. È intrinseca al processo perché sto cercando di capire come siamo arrivati a questo punto. Ma empatia non vuol dire identificazione. Non voglio che il pubblico si identifichi necessariamente con il personaggio. L'idea è di essere con loro, accanto a loro, di provare a mettersi nei loro panni e condividere il loro punto di vista in modo da comprendere il cammino che hanno percorso. Comprendere un processo non significa necessariamente condividerlo o trovargli delle scuse. È qualcosa a cui faccio molta attenzione come filmmaker. Voglio che il pubblico sia libero di pensare ciò che desidera. Penso che là fuori ci sia un tipo di cinema totalitario, che impone le sue opinioni utilizzando i propri personaggi, buoni e cattivi. E che ci sia un cinema che racconta storie "democraticamente", nel quale il o la filmmaker non nasconde il suo punto di vista, ma dà sufficiente libertà al pubblico così che possa svilupparne uno suo.
Ciononostante, non pensi che A Casa Nostra, come strumento politico, potrebbe sensibilizzare quelli che potrebbero essere tentati di votare per l'estrema destra?
Non lo so. Tutto quello che spero è che il film possa incoraggiare la discussione. Nel farlo, sto tentando di mostrare come il populismo sia un inganno. Come si occupa di politica in termini di marketing, e dei cittadini e degli elettori come clienti, o come obiettivi da raggiungere. Su internet si trovano registrazioni delle sessioni di addestramento degli attivisti del Front National che sono molto eloquenti in questo senso. Ho sentito il bisogno di girare questo film mentre giravo il mio precedente film, Sarà il mio tipo? ad Arras, nel nord della Francia. Le elezioni locali si avvicinavano e i sondaggi davano il Front National al 30% o persino al 40% in certi posti. Ho iniziato a preoccuparmi sempre di più del voto popolare all'estrema destra molto tempo fa. E ho sempre realizzato film per rispondere alle domande che io stesso mi faccio. In Sarà il mio tipo? un personaggio dice: "Questo è il nostro posto". Sebbene sia una battuta incongrua per un film, nessuno me ne ha mai parlato prima. Forse perché siamo attaccati all'immagine del Ch'tis, il popolo del nord, come gente cordiale. Ma questa realtà è cambiata. Inoltre, ho una stretta relazione con il nord della Francia in senso più ampio, avendoci già girato due film, e conosco molte persone là. Per dirla senza tanti giri di parole, le elezioni presidenziali si avvicinavano e realizzare questo film sembrava piuttosto urgente.
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